“Che cosa devo fare come prima cosa come vescovo?”

Thursday 28 June 2018

Il 28 giugno di sei anni fa papa Benedetto XVI nominava monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli alla guida dell’arcidiocesi di Gorizia.
Un anniversario che segue di poche settimane lo svolgimento dell’Assemblea diocesana svoltasi a inizio giugno a Monfalcone: una tre giorni di lavori nel corso della quale il vescovo Carlo ha annunciato l’avvio in autunno della Visita pastorale ma anche ricordato il cammino e le motivazioni che hanno portato alla costituzione di nuove Unità pastorali nelle comunità della diocesi ed alla nomina dei loro responsabili.

“Occorre collegare fede e vita, riconoscendo Cristo presente nei sacramenti e nei poveri”. Vorrei partire da queste parole del cardinale Montenegro per chiederLe, nelle sua veste di vicepresidente di Caritas italiana, come tradurre in pratica questo collegamento affrontando concretamente un fenomeno complesso come quello migratorio?

Il fenomeno migratorio va affrontato con pacatezza, realismo e con quella virtù tipica di chi ha responsabilità che papa Francesco ha recentemente richiamato, cioè la prudenza (che non è l’assenza di azione, ma l’agire ponderato, saggio, graduale, e pure coraggioso).
Con l’aggiunta decisiva, per i credenti, del riferimento al Vangelo e all’identificazione di Gesù con i poveri.
È quello che si tenta di fare anche in ambito Caritas.
Si tratta, infatti, di una questione complessa ed è quindi comprensibile, anche se non giustificabile, la tentazione di risolverlo con slogan di carattere elettorale, con reazioni “di pancia”, con ricette semplicistiche pericolose o del tutto inefficaci.

E in positivo che cosa si può fare?

Cercando di non cadere anch’io nel rischio della semplificazione, vorrei formulare cinque constatazioni “realistiche”, senza neppure accennare al quadro giuridico-legislativo italiano ed europeo che dovrebbe essere profondamente aggiornato.
La prima e la più reale: ci sono di mezzo persone, uomini, donne, bambini e spesso in situazioni di difficoltà. Non si tratta di numeri, merci, etichette (“stranieri”, “clandestini”, “invasori”,…), ma di persone, come lo sono io, come lo sei tu, i tuoi figli, i tuoi genitori, i tuoi amici. Se sono in difficoltà, si aiutano “a prescindere”, poi si affronta con saggezza il resto.

E poi?

La seconda constatazione: non capovolgiamo causa ed effetto, cioè la gente non scappa perché ci sono gli scafisti o i passeurs, ma questi purtroppo ci sono perché migliaia e migliaia di persone fuggono da guerre, carestie, persecuzioni, … o anche vanno in cerca di qualcosa di meglio che non trovano a casa loro. Tanto meno emigrano perché ci sono le “ong” che li aiutano o il volontariato che li accoglie.
La terza annotazione è già compresa nella seconda: le cause dell’emigrazione sono complesse e anche la distinzione “richiedente asilo” e “migrante economico” è il più delle volte solo di comodo e comunque non spiega il perché del fenomeno: occorre inventare nuove categorie di comprensione.
La quarta: chi è stato anche solo per un breve viaggio (non limitato ovviamente ai soli villaggi turistici “occidentali”) in Africa o in altri Paesi di provenienza dei migranti sa che ricette tipo “aiutiamoli a casa loro” o “facciamo un piano Marshall per l’Africa” possono essere realistiche solo se mettono in conto risoluzioni di conflitti tra o interni agli Stati, superamento di situazioni di sfruttamento da parte di multinazionali o imprese occidentali, lotta alla corruzione delle classi dirigenti, ingenti risorse da investire, interventi di lungo periodo, che siano progressivi e attenti alla cultura locale, ecc. Nessuna magia, ma molta pazienza e molto impegno.

E la quinta?

La quinta indicazione è importante e ci coinvolge. Al di là, infatti, delle questioni di grande impegno, c’è molto da fare qui da noi: garantire rispetto e attenzione a tutti (anche a chi, secondo le leggi vigenti, non ha diritto a restare); accogliere dignitosamente chi ha la possibilità legale di presentare richiesta di asilo: offrire percorsi di integrazione a chi ha avuto risposta positiva.

L’idea di Europa unita nata nel secondo dopoguerra pare essere vittima oggi di una crisi irreversibile alimentata dall’ondata di populismi e nazionalismi. Come legge questo fenomeno Lei vescovo di una Chiesa come quella goriziana, erede della tradizione Aquileiese e posta in una terra che per lungo tempo è stata di incontro e non di chiusura?

Chi conosce minimamente la storia, sa quanto sono state travagliate le vicende europee lungo i secoli. Ci sono stati periodi di pace e di accordo, ma guerre, conflitti, contrasti, odii, ecc. non sono mai mancati.
Già il fatto che, almeno a una certa parte dell’Europa (Italia compresa, ma non per esempio i vicini Balcani), da più di 70 anni è stata risparmiata la guerra, dovrebbe fare apprezzare comunque l’Unione europea, pur con tutti i suoi limiti e difficoltà. Questa affermazione può essere compresa soprattutto dalle generazioni più adulte.

E i giovani?

I giovani possono invece cogliere l’importanza dell’Europa in quanto “generazione Erasmus”: la stanno girando con facilità per studiare, conoscere, intraprendere. Non dobbiamo deluderli o scoraggiarli.
Mi sembra che i messaggi di chiusura, di paura, di presunti interventi di sicurezza spaventano i vecchi e scoraggiano i giovani.
Possibile che non siamo più capaci di offrire ai giovani e, in genere, alla gente, messaggi positivi, indicare ideali per cui vale la pena spendere la vita, predisporre opportunità di crescita, di vita riuscita e anche, concretamente, di lavoro con la possibilità di formare all’età giusta una famiglia e avere dei figli?
Me lo chiedo anche come Chiesa…

A proposito di giovani e Chiesa. Siamo ormai alla Vigilia del sinodo sui giovani. Lei ha spesso raccontato delle lettere che i cresimandi scrivono al vescovo. Cosa chiedono i giovani alla Chiesa? Cosa si aspettano dalla Chiesa?

Le lettere che mi scrivono i ragazzi e le ragazze della cresima (nelle nostre parrocchie l’età della cresima varia dai 12 ai 17 anni) mi stupiscono sempre per la sincerità, la profondità, la capacità di espressione e persino per il loro realismo. I ragazzi di oggi sono bravi a nascondere dietro messaggini, faccine o altri modi banali di espressione la loro ricerca di verità, di amore, di riuscita, di futuro, di speranza. Mi interrogo spesso su come fare per intercettare questa loro ricerca – sì, anche di Dio perché la fede per loro è importante… – trovando modi nuovi rispetto a quelli che finora anche la Chiesa ha cercato di attuare.

Mi pare che la Lettera pastorale dell’anno che si sta chiudendo cercasse di offrire qualche indicazione…

La Lettera pastorale aveva come argomento i giovani, ma era indirizzata alla comunità adulta. Identico destinatario hanno avuto i diversi incontri proposti su alcuni temi (sport, scuola, lavoro, social, affetti). Lo scopo della Lettera e degli incontri era quello di avviare una riflessione e un discernimento.
Certo, solo comunità cristiane non autoreferenziali, non adagiate sul ripetitivo ma capaci di ascolto e di rinnovamento, sono in grado per lo meno se non di risolvere, almeno di accorgersi che il mondo è cambiato…

E come sono, a Suo parere, le nostre comunità?

In quasi sei anni di presenza ho già avuto modo di incontrare le diverse comunità che compongono la nostra diocesi. Avrò modo di conoscerle meglio nella prossima visita pastorale.
In questi anni, con la conoscenza, sono cresciute il mio apprezzamento, la mia stima e anche – me lo lasci dire – la mia gioia (senza dimenticare anzitutto il ringraziamento al Signore) per le tante realtà positive che esistono qui da noi e, prima di tutto, per i molti sacerdoti, diaconi, religiosi, consiglieri, insegnanti di religione, catechisti, operatori della caritas, ministri della Comunione, animatori dei ragazzi, cantori, ecc. (mi fermo nell’elenco perché sicuramente dimenticherei qualcuno) e semplici fedeli che credono con convinzione, vogliono bene al Signore, amano e servono gli altri, si impegnano con generosità.

Tutto positivo, dunque?

Quando si vuole bene a qualcuno si vedono anche i difetti (sempre con uno sguardo di indulgenza, ma anche di fiducia in un miglioramento) e per questo non ho timore di indicare anche tre limiti che noto nelle nostre comunità.
Anzitutto poco scambio – nei due sensi: dando e ricevendo – delle molte belle iniziative, idee geniali, esperienze riuscite.
Nella nostra diocesi c’è più di quanto si creda, non abbiamo niente (o quasi…, aggiungo per umiltà) da invidiare agli altri: ma ognuno tiene spesso per sé quanto ha o fa di buono e non accoglie quanto viene dagli altri.
Un secondo limite, vicino al primo, riguarda un certa fatica a partecipare al cammino pastorale diocesano, sia nel progettarlo, sia nell’attuarlo (con intelligenza e incarnandolo nella realtà concreta) e nel verificarlo.
A questo proposito mi chiedo come gli organismi centrali della diocesi possano dare un aiuto più puntuale. Dobbiamo tutti fare qualche passo avanti.
Un terzo limite l’ho accennato poco sopra: una certa ripetitività (non che le cose ripetute siano per sé sbagliate: è sbagliata la ripetizione per inerzia o per acritica fedeltà a una presunta tradizione) e poca capacità di vedere i cambiamenti.
Spero che qualche piccolo aiuto per superare questi limiti possa venire dalla visita pastorale e dall’avvio delle unità pastorali.

Durante l’Assemblea diocesana delle scorse settimane, Lei ha appunto annunciato la prossima Visita pastorale e in questi giorni sta operando diversi trasferimenti di sacerdoti in vista della costituzione di unità pastorali. Le chiedo anzitutto circa la Visita pastorale, che cosa significa che essa assumerà la forma della “missione basata sulla Parola” come da Lei precisato nel proporla alla diocesi? Una scelta diversa dal modello consueto di Visita pastorale…

La Visita pastorale ha tradizionalmente lo scopo di conoscere la realtà delle parrocchie, di ascoltare e incontrare i diversi soggetti che in esse operano, di verificare i vari aspetti della vita delle parrocchie, di dare delle indicazioni per il futuro. Tutte cose importanti e che non andranno trascurate.
Ma mi sono domandato: che cosa deve fare per prima cosa un vescovo? Su che cosa devono impegnarsi le comunità in un contesto sempre meno diffusamente “cristiano” (almeno per alcuni valori e attività)? Dove è possibile trovare indicazioni per un discernimento di fede e non semplicemente emotivo o, al contrario, razionalista?
La risposta a queste domande è la Parola di Dio.
Un vescovo, con i presbiteri, i diaconi e tutti i cristiani, per prima cosa deve attuare il mandato del Risorto che ha inviato gli apostoli ad annunciare il Vangelo in ogni parte del mondo. Anche qui da noi, le persone prima che di indicazioni catechetiche, morali o rituali hanno bisogno di ascoltare la freschezza dell’annuncio del Vangelo, di incontrare Gesù, di vedere che Lui è la risposta alla sete di verità, di vita, di amore che c’è nel cuore di ognuno. E la Parola, ascoltata e meditata da ciascuno e con altri, può dare i criteri giusti per interpretare la realtà e per aprirsi all’ascolto dello Spirito.

Come si attuerà in concreto la Visita pastorale? Nel suo intervento all’Assemblea diocesana, ha accennato alla costituzione dei Gruppi della Parola in collegamento con la visita.

L’idea della Visita pastorale e della sua concreta attuazione è ancora molto da precisare. Ringrazio i numerosi partecipanti all’Assemblea diocesana, il Consiglio dei Vicari, il Consiglio presbiterale e quello pastorale diocesano e singole persone per le indicazioni che mi hanno dato. Attendo altri suggerimenti (si possono inviare anche direttamente all’email:
pastorale@arcidiocesi.gorizia.it).
Finora ho pensato a questa scansione di calendario: un’assemblea diocesana di avvio a metà settembre (di una sola sera); da ottobre a fine anno vorrei incontrare i consigli pastorali (per unità pastorali) per presentare la prossima visita, accogliere suggerimenti legati alla realtà locale, fare un esercizio di lectio, incoraggiare i Gruppi della Parola esistenti e chiedere la disponibilità di alcune persone per avviarne di nuovi.

E dopo Natale?

A gennaio-febbraio dovrebbe esserci a livello diocesano un percorso di formazione per gli animatori dei vecchi e nuovi Gruppi della Parola in modo che si possa poi partire con un cammino unitario dalla Quaresima.
Dopo Pasqua, a maggio-giugno, comincerei a visitare alcune unità pastorali prevedendo una presenza dal mercoledì alla domenica.
Oltre ai Gruppi della Parola, non mi dispiacerebbe che si avviassero o si diffondessero iniziative più semplici e più adatte alla generalità dei fedeli sempre in riferimento alla Parola di Dio.

Nei giorni scorsi Lei ha incontrato alcune comunità della diocesi comunicando i nomi dei sacerdoti che presteranno il loro servizio nelle (spesso neocostituite) Unità pastorali e dei parroci chiamati a guidarle. Come fare in modo che questa novità non si limiti ad un restyling di facciata ma possa aiutare le nostre comunità a vivere pienamente il mandato del Risorto?

Mi pare che la domanda colga bene l’intenzione di quello che si sta cercando di fare in questi settimane. Occorre onestamente riconoscere che una spinta a costituire altre unità pastorali in diocesi (perchè già molte esistono, almeno sotto la forma di più parrocchie affidate allo stesso sacerdote) è data dal calo numerico e dall’invecchiamento dei sacerdoti. Ma questa non è l’unica motivazione: anzi sotto il profilo della sufficiente copertura di tutti i bisogni potremmo forse aspettare ancora qualche anno…
Invece l’idea è che unendo più parrocchie, affidate a un’équipe che comprenda più sacerdoti e, possibilmente, dei diaconi, delle religiose e in futuro dei laici, si possa avere uno stile pastorale diverso: più aperto, più collaborativo, più missionario, più ministeriale, più capace di incidere in ambito sociale e culturale.
Il tutto non sopprimendo le parrocchie, ma valorizzando la specificità di ciascuna a servizio dell’insieme. E sempre mettendo al centro la Parola di Dio.

E non si prevedono difficoltà nell’attuare questo progetto?

So che i passaggi portano con sé sempre un po’ di disagio, di fatica, anzitutto ai preti coinvolti, ai loro più stretti collaboratori, ai consigli pastorali e alle comunità. Ma con grande ammirazione e riconoscenza sto constatando in questi giorni molta generosità da parte dei sacerdoti e delle comunità, molta riconoscenza da parte delle comunità verso coloro che si trasferiscono ad altro incarico, molta disponibilità ad accogliere con uno sguardo di simpatia chi arriva. Per tutti, i cambiamenti possono essere un’occasione per ritrovare e confermare l’essenziale, per ricordarsi che l’essenziale è il Signore e il suo Regno, per fare qualche passo avanti nel cammino di crescita spirituale e di maturazione ministeriale.

Alcuni sacerdoti ultra 75enni hanno cessato dal loro impegno come parroci ma continueranno a prestare il proprio servizio nelle nuove Unità pastorali. Un servizio non proprio da pensionati…

Esattamente. Anzitutto colgo l’occasione di questa domanda per rinnovare il grazie a chi si rende disponibile o su propria richiesta o comprendendo e accogliendo la proposta del vescovo. Mi è molto di conforto e di incoraggiamento vedere un sacerdote ultrasettantacinquenne che, pur con le inevitabili fatiche di ogni passaggio (siamo tutti esseri umani…), non “considera un tesoro geloso” (cf Fil 2,6) il proprio incarico, ma lo mette a disposizione, con l’atteggiamento di chi, come ha scritto di recente papa Francesco, “si spoglia dai desideri di potere e della pretesa di essere indispensabile” e per questo può “attraversare con pace e fiducia tale momento, che altrimenti potrebbe essere doloroso e conflittuale” (m.p. Imparare a congedarsi).

Quindi niente pensione…

Un prete non va mai in pensione: l’essere sacerdote non è una professione o un mestiere, ma una vocazione che connota per sempre la persona. Per questo chiedo ai sacerdoti che lasciano l’incarico di parroco di entrare in un’équipe di una unità pastorale o dove già hanno esercitato il ministero o anche in un’altra unità per offrire la propria collaborazione a chi, più giovane, ha la responsabilità dell’unità pastorale.
Vedo che già in diversi di loro sta maturando un atteggiamento veramente paterno verso chi è più giovane, simile a quello di una padre che con orgoglio e fiducia affida qualcosa che gli è caro a un figlio e, dietro le quinte, lo sostiene con simpatia e discrezione. Aggiungo che da diversi fedeli c’è da tempo la richiesta di poter trovare dei sacerdoti meno oberati da incarichi e adempimenti vari e per questo disponibili all’ascolto, all’accompagnamento pastorale, alla confessione. Anche per i parroci emeriti il lavoro non manca e non mancherà.

a cura di Mauro Ungaro