Gesù non resta nel sepolcro ma risorge

Saturday 20 April 2019

La sera di sabato 20 aprile, mons. Redaelli ha presieduto in cattedrale la veglia pasquale nel corso della quale hanno ricevuto il battesimo alcuni catecumeni adulti.

Pubblichiamo di seguito la sua omelia.

 

Tutti, penso, conosciamo l’apostolo Paolo, sappiamo della sua conversione sulla via di Damasco, ascoltiamo molto spesso brani delle sue lettere, come questa notte un passo della lettera ai Romani. Come ascoltatori o lettori dei suoi scritti oltre che degli Atti degli Apostoli, sappiamo anche che Paolo era un personaggio tutt’altro che insignificante, uno molto convinto, appassionato e qualche volta persino arrabbiato.

Ora, se c’era una cosa che suscitava davvero la sua ira, era sentire che qualcuno metteva in dubbio il suo essere apostolo di Cristo. A dir la verità, chi aveva qualche obiezione sulla sua identitàdi apostolo, poteva indicare anche qualche elemento a favore della propria opinione. Paolo, infatti, non aveva conosciuto Gesù, non era stato chiamato da Lui come Pietro, Andrea, Giacomo, Giovanni, ecc., non lo aveva seguito lungo le strade della Palestina, non aveva visto i suoi miracoli o ascoltato le sue parole. Paolo, però, rivendica con forza il suo essere apostolo, basandosi sul fatto di aver incontrato Gesù risorto sulla via dei Damasco e di essere stato mandato da Lui ad annunciare il Vangelo.

Potremmo allora dire che l’apostolato di Paolo è frutto della risurrezione di Gesù. Paolo è un apostolo che viene dopo la Pasqua. In questo senso, si può affermare senza esagerare che è più vicino a noi degli altri apostoli, perché come noi non ha conosciuto Gesù secondo la carne (per usare una sua espressione).

Ma c’è un altro aspetto che avvicina Paolo a noi, su cui vorrei attirare la vostra attenzione, ed è il fatto che Paolo è stato battezzato, è diventato cristiano tramite la mediazione della Chiesa e il sacramento del battesimo. Lo raccontano gli Atti degli Apostoli: Paolo è stato battezzato a Damasco per opera di Anania, un cristiano importante di quella comunità, probabilmente un presbitero. Gli altri apostoli non sono stati, invece, battezzati. Forse qualcuno di loro, come Andrea e Giovanni, hanno ricevuto il battesimo di Giovanni Battista, di cui sono stati discepoli prima di seguire Gesù. Ma gli apostoli non hanno ricevuto il battesimo. Paolo sì e anche questo lo rende vicino a noi, anche a Dalila Rafaela, Evelyne e Semina che tra poco riceveranno il battesimo.

Quando Paolo parla del battesimo, quindi, parla di una sua personale esperienza. Proviamo allora a riprendere quanto ci ha detto questa sera nel passo della lettera ai Romani. Lo riassumerei in tre affermazioni.

La prima: Paolo, parlando del battesimo, non afferma che siamo stati battezzati nell’acqua, ma dice “in Cristo”. Notate, non afferma “nel nome di Cristo” o “in ricordo di Cristo” o “in obbedienza al suo comando” o frasi simili. No, dice proprio “in Cristo”. Il rapporto del cristiano con Gesù non è il rapporto con un’ideale, con un maestro esterno, con una persona altra da noi, ma è una relazione di profonda comunione. Siamo battezzati in Cristo e con il battesimo – lo ricorda altrove nelle sue lettere san Paolo – diventiamo parte del Corpo di Cristo che è la Chiesa. Il battesimo ci pone in questo rapporto profondo con Gesù: siamo in Lui, come Lui è in noi.

Una seconda affermazione: siamo battezzati, immersi, non genericamente in Cristo, ma nella sua morte. Abbiamo ricordato ieri, il venerdì santo, la sua morte. Ma con il battesimo quell’evento non è diventato un avvenimento lontano ed estraneo a noi, ma è diventato nostro: noi siamo morti con Lui, siamo stati sepolti con Lui. Nel battesimo muore l’uomo vecchio, muore il peccato. Per sempre. Non è semplicemente cancellato, ma muore per sempre.

Ma ecco un terzo passaggio: Gesù non resta per sempre nel sepolcro, ma risorge. Così anche noi moriamo con Gesù, ma per rinascere a una vita nuova. In un certo senso risorgiamo già con Lui, incominciamo già una vita da risorti. Certo, la pienezza della risurrezione sarà solo alla fine, al compimento della nostra vita e della storia. Ma già adesso «possiamo camminare in una vita nuova» e – come conclude il brano di stasera – dobbiamo considerarci «morti al peccato e viventi per Dio, in Cristo Gesù».

Paolo, che ha sperimentato personalmente il battesimo, ci aiuta quindi a comprendere questa sera il senso di quello che stanno per ricevere Dalila Rafaela, Evelyne e Semina. Loro, attraverso il battesimo – e poi la confermazione e la prima Eucaristia, entreranno in piena comunione con Gesù, diverranno membra vive del Corpo di Cristo che è la Chiesa, potranno e dovranno d’ora in poi vivere secondo il Vangelo. La loro esperienza assomiglia di più a quella di Paolo rispetto alla nostra, di chi, intendo dire, come me è stato battezzato nei primi giorni o mesi di vita. Anche loro, a un certo punto della vita, in diversi modi, come l’apostolo Paolo, hanno incontrato Gesù e hanno così deciso di intraprendere il cammino per diventare cristiane, approfondendo la scelta di fede e impegnandosi ad alcune precise scelte di vita. Ora, con convinzione, vogliono assumere una vita nuova rispetto al passato. Me lo hanno raccontato e anche scritto. Cito solo alcune loro frasi, sperando di non violare la loro riservatezza: “la fede è un dono che esce dal cuore, perché quando c’è la fede, c’è l’amore, quando c’è l’amore, c’è la pace, e quando c’è la pace sta Dio: per tutte queste cose chiedo il battesimo”; “non domando solo per me il battesimo, ma anche perché io sia una testimonianza vivente per toccare chi mi sta attorno con la mia conversione”; “io sento che il battesimo è ciò che sono chiamata a fare da Lui, e sento che è la cos giusta, mi rallegro perché con il battesimo rincomincio una vita nuova in Lui, con dolori e sofferenze, certo, ma terremo la croce assieme… è proprio questo il mio desiderio: vivere pienamente in Lui con il battesimo”.  

Noi che siamo stati battezzati da piccoli abbiamo avuto una esperienza diversa, meno scelta da noi, perché sono stati i nostri genitori a chiedere per noi il battesimo. Siamo stati in qualche modo penalizzati rispetto a queste nostre tre amiche? Sarebbe stato meglio se fossimo stati battezzati da grandi? Ma se il battesimo ci inserisce in Cristo, ci mette in comunione con Lui, ci inserisce nella Chiesa… allora non siamo noi che dobbiamo invidiare le nostre tre amiche, ma sono loro che devono per così dire invidiarci, perché fin da piccoli abbiamo avuto questo dono immenso.O non ne siete convinti?

Il problema vero è proprio questo. Non abbiamo dentro di noi la convinzione che ci è stato dato fin dall’inizio un tesoro: la fede, il Vangelo, la comunione profonda con Gesù. Se ce ne rendessimo di più conto, allora la nostra vita cambierebbe e anche quella di chi è attorno a noi, perché verrebbero contagiati dalla nostra gioia di essere cristiani.

Il battesimo di Dalila Rafaela, Evelyne, Semina ci porta questa notte tanta gioia, perché è un dono grandissimo vedere generare alla fede delle donne, vedere che diventano figlie di Dio e parte della Chiesa. Ma la gioia per loro – una vera gioia pasquale… dovrebbe risvegliare la gioia di essere noi cristiani e cristiane. E’ il dono più grande che ci è stato fatto nella vita. Che il Signore ci dia la grazia di saperlo e dia anche a Dalila Rafaela, Evelyne e Semina di ricordalo e viverlo persempre.

Allora sarà una buona Pasqua per tutti.    

+ vescovo Carlo

 

La sera di Venerdì santo, 19 aprile l’arcivescovo Carlo ha presieduto la liturgia in cattedrale  

 

E dopo? Dopo quando? direte voi… Intendo dire dopo quello che abbiamo ascoltato. Come sarà stata quella sera dopo che Gesù è stato rinchiuso nel sepolcro? Come l’avranno vissuta i protagonisti della passione?

Anna e Caifa, i sommi sacerdoti, saranno stati certamente contenti: «finalmente abbiamo eliminato un nostro nemico, uno che ci avrebbe creato gravi  problemi con i romani, un pazzo che si proclamava figlio di Dio…». Forse si saranno chiesti come mai il loro collega Nicodemo si fosse così esposto nei confronti del presunto messia da provvedere alla sua sepoltura in accordo con il ricco Giuseppe di Arimatea. E si saranno detti che era il caso di espellerlo dal sinedrio.

E Pilato? Sicuramente si sarà confidato con la moglie Claudia Procula. Le avrà detto che alla fine se l’era cavata tutto sommato alla meno peggio, con quell’uomo così particolare. Non un brigante, ma uno che gli parlava della verità. «Già – cara Procula , ma che cos’è la verità? Se non lo sanno i grandi filosofi, vuoi che lo sappia un funzionario come me mandato a governare una lontana e litigiosa provincia dell’impero? E, sono sicuro, dietro la consegna a me di quell’uomo – puoi esserne certa, cara – c’era una trappola bene orchestrata da parte dei sommi sacerdoti… Bisogna stare attenti, perché hanno degli amici a Roma, quelli, vicini all’imperatore…».

I soldati, invece, si saranno dati appuntamento quella sera in qualche bettola di Gerusalemme. A loro non interessava certo il riposo del sabato e avevano qualche soldo da spendere, ricevuto come premio per aver partecipato a un’esecuzione capitale. Non si diceva forse a Roma: “mors tua, vita mea”? Bevendo e bestemmiando qualcuno dei quattro avrà cercato di vendere la parte delle vesti di Gesù che gli era toccata. Ma la tunica, quella bella tunica dov’era finita? Il soldato che l’aveva ricevuta in sorte non era con gli altri quella sera. Forse stava pensando a quell’uomo così diverso dagli schiavi e dai ribelli che nella sua lunga carriera di legionario aveva visto appendere alla croce. E Longino, quello che aveva assestato un preciso colpo di lancia al petto di quell’uomo ormai morto, dov’era? Preso anche lui dai suoi pensieri, da quello che aveva visto uscire da quel costato trafitto…

Nicodemo probabilmente si sarà recato nella casa di Giuseppe di Arimatea, ancora con le vesti impregnate dal profumo di mirra e di aloe, aromi utilizzati per dare una degna sepoltura a Gesù. Avrà raccontato all’amico di un’altra notte, quando si era recato, pieno di curiosità, da Gesù. Allora quell’uomo così straordinario gli aveva parlato di una rinascita e Nicodemo se ne era uscito con un’osservazione molto banale: «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». Gesù gli aveva allora parlato della nascita dall’alto, dall’acqua e dallo Spirito e lo aveva benevolmente criticato: «Tu sei maestro d’Israele e non conosci queste cose?». «Vedi, Giuseppe, allora non avevo capito e anche adesso sono confuso. Eppure ho visto come è morto, ho sentito il suo ultimo respiro di lui morente e ho pensato allo Spirito e poi ho visto l’acqua che con il sangue è uscita dal suo fianco… Ti ricordi quell’antica profezia? Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto…».

E le donne, dove saranno andate quella sera? Sicuramente non avranno voluto lasciar sola la madre, a cominciare dalla  sorella, e con lei saranno andate nella casa del discepolo amato, che obbediente alla parola di Gesù in croce«Ecco tua madre!» – già quella sera si era reso disponibile ad accogliere Maria. In certi momenti le parole sono di troppo. Saranno allora state lì, piangendo in silenzio, accanto alla madre. Di Lui, di Gesù, tanto si preoccupavano gli uomini, Giuseppe e Nicodemo. Ci sarebbe stato tempo per andare al sepolcro il giorno dopo il sabato

I discepoli, invece, che avevano seguito Gesù nel giardino al di là del torrente Cedron e si erano allontanati spaventati dal Getsemani (Gesù li aveva salvati dicendo a chi lo stava catturando:«Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano»), quella sera erano tornati a riunirsi presso il cenacolo, ma solo quando si era fatto buio, badando bene poi di sbarrare le porte. Non si sa mai: ucciso Gesù, forse il sinedrio e Pilato volevano sbarazzarsi anche dei suoi seguaci per prevenire eventuali ribellioni… Chiusi dentro il cenacolo, chiusi nella paura, chiusi nella vergogna di avere lasciato solo Gesù.

Chissà se quella sera Pietro era con loro? Forse se ne andava solo e piangente per le strade di Gerusalemme incurante del riposo del sabato. Sapeva che sul finire della notte qualche gallo avrebbe come sempre cantato, ma non c’era bisogno di quel canto per avere la viva consapevolezza di aver rinnegato per tre volte un maestro, un amico, il suo Signore. Ci sarebbe stato perdono per lui? Ma ormai il maestro era morto…

Ho provato a immaginare gli atteggiamenti e i sentimenti di alcuni protagonisti della passione quel venerdì santo sera. Non certo per fare un romanzo o scrivere la sceneggiatura di un film, quanto piuttosto per ricordarci che erano persone concrete quelle coinvolti nella passione di Gesù, uomini e donne con pensieri, domande, attese, rimorsi, sentimenti come li possiamo avere noi.

Perché alla fine quello che conta è sapere come siamo noi in questa sera del venerdì santo. Rispecchiarci nei protagonisti del Vangelo ci può aiutare a capire chi siamo e come ci poniamo davanti alla croce di Gesù. La liturgia che stiamo per continuare ci aiuta proponendoci tre momenti. Anzitutto la preghiera universale. Quel Gesù morto in croce è davvero il Salvatore di tutti, anche il mio, anche il nostro. Anzi non può essere il mio se non è anche il nostro. La preghiera per le diverse intenzioni più che al Signore, che conosce bene i bisogni dell’umanità intera, serve a noi perché ci sentiamo fratelli e sorelle di tutti, con il dono e l’impegno di testimoniare l’amore universale del Crocifisso.

Segue poi l’adorazione della croce. Ci viene chiesto di sporgersi sull’abisso del peccato e di scoprire che è anche l’abisso dell’amore. Adorare, contemplare, vedere più che parlare e ragionare. Contemplare Colui che è stato trafitto.

Infine la comunione, perché l’Eucaristia è ciò che profondamente e realmente ci unisce al dono di sé del Signore, con l’Agnello che offre la sua vita per noi e prende su di sé il peccato del mondo.

Preghiera, adorazione, comunione: ecco il nostro modo per vivere pienamente la sera del venerdì santo, anche noi protagonisti, dopo duemila anni, della sua passione.            

+ Carlo

 

La sera di giovedì 18 aprile 2019, l’arcivescovo Carlo ha presieduto in cattedrale la messa “in coena domini”. Pubblichiamo di seguito la sua omelia

 

Visitando in questi giorni per la benedizione e gli auguri pasquali una quindicina di aziende, grandi e piccole, del nostro territorio – dall’ultima sono stato questo pomeriggio – mi è venuto spontaneo farmi una domanda, che può apparire un po’ strana: quando Gesù lavorava come falegname a Nazaret si faceva pagare? La risposta è affermativa: certo Gesù, e prima di lui san Giuseppe, si facevano pagare. Sicuramente avranno fatto qualche lavoro gratis per i più poveri e non avranno preso per il collo la povera gente pretendendo di essere pagati tutto e subito, ma avranno aspettato che i loro clienti più poveri avessero qualche soldo per saldare il dovuto… Ma ovviamente di norma si facevano pagare. Altrimenti come avrebbe potuto mandare avanti la loro bottega, come si sarebbero procurati il necessario per vivere e anche il materiale e gli attrezzi per il loro lavoro e come sarebbero riusciti a pagare gli operari e i garzoni che probabilmente lavoravano con loro…?

Proseguendo nei miei strani pensieri, mi sono anche domandato: ma Gesù amava la gente quando si faceva pagare? Ci amava anche in quel momento? O ci ha amato solo morendo sulla croce e, prima, lavando i piedi agli apostoli e ancora prima guarendo i malati e facendo altri miracoli a favore della povera gente? Non so cosa ne pensate… Ma io dico di sì: se Dio è amore, vuoi che suo Figlio ci abbia amato a intermittenza e solo in qualche momento? Quindi Gesù ci amava anche quando lavorava a Nazaret – e lo ha fatto per circa 20 anni, prima come garzone nella bottega di Giuseppe, e poi in proprio – e anche quando si faceva pagare dai suoi clienti o trattava il prezzo con chi gli vendeva il legname o concordava il compenso con chi gli appaltava qualche lavoro nella città di Sephoris a sette chilometri da Nazaret, ricostruita in quegli anni dopo la distruzione operata dai romani a seguito di una rivolta.

Vi sembrano discorsi strani, quelli di stasera? Ma arriviamo a noi. Gesù nell’ultima cena ci offre il comandamento dell’amore e lo presenta concretamente con il gesto della lavanda dei piedi che diventa un dovere (Gesù, infatti non dice “vi consiglio di farlo…”, ma “dovete lavare i piedi gli uni gli altri…”). Questo significa che il comandamento dell’amore deve essere vissuto solo con gesti di carità gratuita? E che quindi il resto della nostra vita sarebbe fuori dal comandamento dell’amore? Detto con altre parole: noi amiamo gli altri solo quando gli aiutiamo gratuitamente? Siamo discepoli di Gesù solo quando compiamo un gesto di generosità?

Se così fosse, un imprenditore sarebbe un bravo cristiano solo quando facesse un’offerta generosa per la caritas o per le missioni; un impiegato o un operaio solo quando dopo il lavoro si impegnasse nel volontariato; uno studente solo quando andasse a trovare la nonna all’ospizio, e così via… Capite che c’è qualcosa che non va. Anche se talvolta nelle prediche o nella catechesi insistiamo solo sui gesti gratuiti di amore, non è possibile che la vita cristiana consista solo in quegli atti. Sicuramente ci vogliono e guai se mancassero nella nostra vita. Ma sono solo dei segni che dicono il senso della nostra esistenza. Una vita che deve essere tutta e sempre per il Signore e per gli altri e non solo occasionalmente nei bei gesti.

Così, per tornare agli esempi di prima, un imprenditore è un bravo cristiano se mette a disposizione talenti e risorse per creare lavoro e se gestisce con responsabilità e attenzione alle persone il proprio compito e non solo se fa qualche volta un’offerta per i poveri. Un impiegato o un operario è un bravo cristiano se vive con impegno e precisione il proprio lavoro, se è solidale con i colleghi, se è attento alle persone e non solo se fa del volontariato. Uno studente, anzitutto se studia, se si impegna, se rifiuta il bullismo, se aiuta i compagni che fanno più fatica e non solo se va a trovare la nonna… Il comandamento dell’amore si vive così nella totalità della vita e non solo in qualche sporadico slancio di generosità.

Sappiamo che nel Vangelo di Giovanni il gesto della lavanda dei piedi prende il posto dell’Eucaristia. L’evangelista non si è distratto dimenticando di raccontarci ciò che è successo quella sera e neppure ha considerato un particolare insignificante ciò che Gesù ha compiuto chiedendoci di ripeterlo in sua memoria fino alla sua venuta. No, Giovanni ha presentato la lavanda dei piedi come un gesto che manifesta il senso profondo e molto concreto dell’Eucaristia. Gesù si dona sulla croce, ma quello è solo il compimento di una vita di amore e di servizio, compresi i lunghi anni passati nella quotidianità di Nazaret, e il gesto della lavanda dei piedi ne è come il simbolo.

Celebrare l’Eucaristia vuol dire entrare in questa logica di amore e di servizio con la concretezza di quel gesto. Una logica da vivere in tutta la vita e in ogni ambito della vita e non solo in quelli più connotati dalla generosità. Dobbiamo allora partecipare all’Eucaristia ogni domenica non per imparare a fare qualche gesto sporadico di carità lungo la settimana, ma perché tutta la nostra vita sia vissuta nella logica dell’amore. Tutta… Con i nostri impegni, le nostre responsabilità, le nostre relazioni, … insomma tutto ciò che è la nostra vita. Penso sia questo il messaggio del giovedì santo: vivere un amore concreto che abbracci tutta la nostra vita, in ogni momento anche in quello in apparenza meno significativo, più banale, più usuale. Perché Gesù si faceva pagare per il suo lavoro di falegname e anche in quel momento ci amava. O non ne siete convinti?

+ vescovo Carlo

 

 

Nella mattinata del giovedì santo in cattedrale si era svolta la Missa crismale concelebrata dai presbiteri in servizio pastorale in diocesi e presieduta dal vescovo Carlo nel corso della quale sono stati anche ricordati gli anniversari di ordinazione sacerdotale di don Nino Comar (65°), mons. Pietro Sambo (60°), don Alberto deNadai (60°), don Eugenio Biasiol (50°), mons. Adelchi Cabass (50°), mons. Luigi Olivo (50°), don Ennio Andreos (50°), don Fabio LaGioia (25°). Pubblichiamo di seguito l’omelia di mons. Redaelli.

 

Ascoltando il brano programmatico con cui, stando al Vangelo di Luca, Gesù inizia a Nazaret la sua missione, noi ministri della Chiesa vescovo, presbiteri e diaconi ci sentiamo immediatamente chiamati a condividere la stessa missione di Cristo nella Chiesa e nel mondo di oggi, annunciare cioè ai poveri, ai prigionieri, ai ciechi, agli oppressi l’anno di grazia del Signore, il lieto annuncio della salvezza. La cosa in sé non è sbagliata, perché pur non avendo noi l’esclusiva dell’annuncio e della testimonianza evangelica che spetta a tutti i battezzati, è chiaro che il nostro ministero non può che essere caratterizzato anzitutto dall’annuncio della Parola di Dio. La stessa accentuazione che in questi anni abbiamo dato e stiamo dando alla Parola, in sintonia con il cammino di altre Chiese particolari e della Chiesa nel suo insieme, conferma la priorità da garantirealla missione di annuncio e di testimonianza. E su questo in vari modi ci siamo soffermati più volte negli scorsi anni in occasione della Messa del crisma il giovedì santo.

Oggi, però, vorrei chiedervi di non spostarvi dalla posizione di ascoltatori del Vangelo, di non avere fretta a salire sul pulpito. Anche noi, infatti, siamo i poveri, i prigionieri, i ciechi, gli oppressi cui l’annuncio del Signore è diretto. Permettete che io stesso scenda allora in mezzo a voi per rivolgermi al Signore con una voce sola, vescovo, presbiteri e diaconi.

Signore, noi siamo i poveri cui tu porti il lieto annuncio. Certo non siamo poveri come tante persone che quotidianamente bussano alle porte delle canoniche o si presentano ai centri di ascolto della Caritas. La generosità del popolo di Dio e gli accordi tra la Chiesa e lo Stato ci garantiscono quanto basta per vivere più che dignitosamente. In questo siamo privilegiati rispetto a tanti altri e, con riconoscenza e forse con un po’ di rossore, dobbiamo riconoscerlo. Sperimentiamo però altre povertà. Come presbiterio ci sentiamo sempre di meno, invecchiati e incapaci di essere all’altezza di quanto ci viene chiesto. E per i diaconi la situazione non è diversa. Se poi partecipi a qualche nostro incontro, vedrai come facciamo fatica a non colorare i nostri discorsi di elementi di depressione e di lamentela. Ci sentiamo poi dentro una Chiesa, che presenta certo tanti elementi di speranza, ma che oggi deve riconoscere con amarezza e vergogna l’essere venuta meno anche nei suoi ministri del rispetto verso i piccoli. Per non parlare della povertà delle divisioni e delle critiche reciproche dai più alti livelli fino ad arrivare a noi. Tu, poi, conosci le povertà, le debolezze, i peccati di ciascuno di noi.

Lo sappiamo, ma abbiamo bisogno che ce lo ridici: Tu ci ami così come siamo, non aspetti che siamo santi per fidarti di noi e affidarci la cura del popolo di Dio. Fin dall’inizio non hai scelto come tuoi collaboratori uomini perfetti e così è stato lungo tutta la storia della Chiesa fino ad oggi.Il Vangelo del perdono, della misericordia, del Regno è quindi rivolto a noi. Vorremmo sperimentare maggiormente la gioia di questo Vangelo: così la nostra testimonianza sarà credibileperché verrà dal cuore e dalla vita. E insegnaci a esultare con i molti poveri di spirito che ci fai incontrare nel nostro ministero. Tante donne e tanti uomini che vivono il Vangelo con verità anche in mezzo a grandi prove e ci sono di esempio e di conforto.

Donaci la beatitudine della povertà, Signore.

Signore, noi siamo i prigionieri cui tu proclami la liberazione. Prigionia significa privazione di libertà. Dove non siamo liberi come vescovo, presbiteri e diaconi? Che cosa ci condiziona? Certamente la mentalità del mondo, di cui siamo parte, e che inevitabilmente respiriamo. Si infila, a volte senza che ce ne accorgiamo, nel nostro modo di pensare, di agire, di sentire e nel nostro stile di vita. La mondanità spirituale, cui papa Francesco ha fatto cenno nell’omelia di domenica scorsa, è qualcosa che ci condiziona e ci fa pensare e agire, magari a fin di bene, ma non secondo il Vangelo.

Ma ci sono anche i condizionamenti che provengono dalla comunità ecclesiale e ci rendono meno liberi. Le attese non evangeliche delle persone, a volte persino le pretese di alcuni gruppi che utilizzano la Chiesa per i loro scopi, la frase che si ripropone come un ritornello che blocca ogni cambiamento: si è sempre fatto così…”. Anche dentro il presbiterio e tra i diaconi spesso non ci sentiamo liberi, condizionati dall’etichetta che ci siamo appiccicati addosso a vicenda e dal timore del giudizio degli altri. E nell’intimo di ciascuno di noi ci sono tanti altri condizionamenti, tanti blocchi che tu conosci e ci rendono meno liberi, meno disponibili, meno aperti al vento dello Spirito.

Donaci il tuo Spirito di libertà, Signore.

Signore, noi siamo i ciechi cui tu ridoni la vista. Ciechi perché talvolta non sappiamo vedere il bene e non ci accorgiamo pienamente della tua azione nel cuore delle persone, in particolare dei giovani ai quali tu ancora proponi la via impegnativa del Vangelo. Ciechi o, meglio, miopi, perché non sappiamo vedere lontano e davanti a noi, ma spesso ci ripieghiamo su noi stessi o ci volgiamo aun passato più o meno idealizzato. Facci sentire l’invito del profeta: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Isaia 43,18-19). Purifica i nostri occhi, aprili alla luce e alla speranza.

Signore, fa’ che vediamo.

Signore, noi siamo gli oppressi che tu rimetti in libertà. Spesso ci sentiamo oppressi da responsabilità, incombenze, realtà esteriori, in particolare dalle strutture, che dovrebbero servire all’azione pastorale – è così è avvenuto in passato – ma ora sono talvolta un peso, che richiede tanto tempo ed energie.

Ma c’è anche un’oppressione interiore che pesa sul cuore e può arrivare a impedire di respirare, di muoverci, di vivere. L’oppressione più grande è quella della paura che paralizza. Tutti abbiamo delle paure, paure molto umane circa il futuro, la salute, la vecchiaia, la morte. Forse, a volte, anche la paura di aver sbagliato a scegliere la strada del ministero. E, certo, queste paure ci impediscono di essere meno credibili verso i giovani, in particolare di coloro – e ce ne sono anche oggi, magari presenti in questa celebrazione che percepiscono dentro il loro cuore il fascino di una chiamata a seguirti nel ministero presbiterale e diaconale. Tu, Signore che, come contempleremo questa notte, hai provato paura e angoscia, liberaci dall’oppressione delle nostre paure e rendici la gioia di fidarci di Te.

Donaci la libertà, Signore.

Abbiamo provato, Signore, a esprimerti il nostro essere poveri, prigionieri, ciechi e oppressi. Lo abbiamo fatto non per un gusto quasi masochistico di evidenziare ciò che in noi non va bene, ma per essere ancora più disponibili ad accogliere il tuo annuncio di grazia e di salvezza, la tua misericordia, il tuo amore. Anche questo tempo che viviamo è «un anno di grazia». Del resto solo se consapevoli di essere salvati, possiamo essere annunciatori di salvezza. Solo se oggetto di misericordia, possiamo essere ministri di misericordia. Solo se amati, possiamo amare.

La tua grazia ci salvi e ci apra alla gioia della Pasqua.  

+ vescovo Carlo

 

 

(foto Sergio Marini)