Non basta vedere per credere

Sunday 19 April 2020

Domenica 19 aprile l’arcivescovo Carlo ha presieduto la messa nella II^ domenica di Pasqua in cattedrale. Il rito si è svolto a porte chiuse e con diretta sui social diocesani.

Vorrei proporvi questa domenica nell’ottava di Pasqua una lettura a ritroso della Parola di Dio. Partiamo quindi dal Vangelo, appena ascoltato, e proprio dall’ultima frase: «Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome». Si tratta della prima conclusione del Vangelo di Giovanni (prima perché poi ce ne sarà un’altra alla fine del cap. 21), che vuole rispondere alla domanda sul perché l’evangelista lo ha scritto. Una risposta fondamentale quella data da Giovanni, decisiva per la comprensione di tutto il Vangelo: il rischio, infatti, è di leggerlo cercando altro e non trovandolo. Il Vangelo, infatti, non è stato scritto per raccontarci semplicemente dei fatti, non per soddisfare una nostra curiosità, non per darci alcuni significativi insegnamenti morali, ecc. ma «perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome». Il Vangelo, quindi, è per la fede e per una fede che porta alla vita e non semplicemente ad aderire a delle verità, una vita che è quella di Gesù, Figlio di Dio morto e risorto.

Occorre osservare che la conclusione del Vangelo di Giovanni non si trova per caso al termine dell’episodio di Tommaso, ma è in stretta continuità con esso. Più precisamente con le parole di Gesù con le quali, a fronte dell’affermazione di fede di Tommaso, proclama una beatitudine: «beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Una beatitudine resa al passato – “hanno creduto” –, ma un passato che perdura nel tempo, perché si rivolge a chi ascolta e legge il Vangelo credendo.

E’ chiaro allora: alla fede in Gesù si può arrivare come Tommaso vedendolo, ma si può arrivare anche senza vedere. Per altro non basta vedere per credere: si può vedere e non capire, si può incontrare e non credere, si può ascoltare e rifiutare quanto viene detto. Anche a Tommaso è comunque richiesta la fede, come è stata richiesta a tutti coloro che hanno incontrato Gesù dopo la risurrezione o anche prima nella sua vita terrena. Accogliendo il messaggio del Vangelo si può allora credere ed essere beati, cioè felici, anche se non si vede Gesù (tra parentesi, noto che nel Vangelo di Giovanni ci sono solo due beatitudini proclamate da Gesù: una è questa, collegata alla fede, l’altra è stata detta dopo il gesto della lavanda dei piedi ed è collegata al servizio sull’esempio di Gesù).

Che si possa credere ed essere felici pur senza vedere, viene affermato da Pietro. Ci spostiamo quindi indietro alla seconda lettura. L’apostolo, riferendosi a Gesù, dice ai cristiani: «Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime». E’ evidente la piena consonanza con il Vangelo: senza vedere Gesù, si può però credere in Lui e provare una gioia così grande che non si può neppure descrivere, una gioia collegata al dono della salvezza, cioè della vita.

Ma Pietro non parla solo di fede, aggiunge anche l’amore: «Voi lo amate». In effetti credere è amare, proprio perché il contenuto della fede non è una dottrina ma una persona e la relazione più vera con una persona non può che essere l’amore. La salvezza è quindi amare, perché l’amore è la vita. Solo dove c’è amore c’è la vita e una vita capace di vincere la stessa morte. La croce di Gesù, il segno dell’amore più grande, ce lo ha disvelato. Ogni persona, pertanto, non importa se contemporanea di Gesù o vivente dieci, venti, trenta, cento, mille, duemila anni dopo di Lui, può nella fede incontrare il Signore, credere in Lui, amarlo e trovare così nella gioia vita e salvezza.

Questa è la convinzione che deve essere sempre presente in noi, nei momenti facili o comunque relativamente normali e in quelli di prova, come sono i nostri attuali giorni. Ed è significativo che Pietro rivolga le sue parole non a dei cristiani sereni e tranquilli, ma a persone che vivono la prova, in quel caso quella della persecuzione. Una prova che comunque non toglie la gioia, perché la prova non è per sempre ma «per un po’ di tempo» e ha lo scopo di purificare la fede: «siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco – torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà».

L’adesione di fede e di amore al Signore, nella gioia anche se nella prova, è qualcosa di molto personale. Ciò non significa che non siamo aiutati e sostenuti dagli altri. Anzi: tutto il nostro percorso di fede è comunque sostenuto dagli altri, da chi ci ha trasmesso i primi rudimenti della fede e della vita cristiana come i nostri genitori, da chi ci ha educato, da chi ci ha consigliato, a chi ha pregato e prega per noi, da chi ci è stato e ci è di esempio. Però, alla fine siamo soli davanti a Lui: non possiamo delegare ad altri la decisione di fede.

Se la scelta di fede è personale, l’esperienza della fede è comunionale, è comunitaria. Chi nella fede accoglie Gesù come il Salvatore, ha il dono di diventare figlio di Dio e di avere la grazia dello Spirito che lo rende fratello di tutti. Ciò si manifesta nella concretezza della comunità cristiana. E arriviamo così alla notissima pagina degli Atti degli apostoli che è la prima lettura di oggi. Non abbiamo tempo di commentarla come sarebbe opportuno. Mi limito a tre sottolineature.

La prima: questa pagina indica il vero frutto della Pentecoste, che non è tanto il parlare in lingue e il farsi capire da tutti, ma l’accoglienza nella fede dell’annuncio del Risorto che porta a entrare nella Chiesa come comunità dei credenti animata dallo Spirito. La comunità cristiana è il frutto della Pentecoste.

La seconda sottolineatura: questa pagina dice che la comunione ecclesiale deve diventare la concretezza della carità. Non c’è bisogno di sottolineare quanto questo sia decisivo per l’oggi e per il domani che ci aspetta. La concretezza della carità, il soccorrere chi è nel bisogno non è qualcosa che si aggiunge all’esperienza cristiana, ma è una sua espressione necessaria.

La terza annotazione: la dimensione comunitaria della fede, comunitaria in senso profondo, quindi comunionale, non è qualcosa di secondario da vivere quando si può e si vuole, ma è essenziale al nostro essere discepoli di Gesù. In questo senso – ma è solo un accenno che meriterebbe diverse considerazioni – il non poter celebrare insieme l’Eucaristia per le note ragioni è qualcosa che ci fa soffrire non solo sul piano personale (dove comunque il Signore non smette di essere con noi e di sostenerci anche se non possiamo accedere ai sacramenti), ma soprattutto su un piano comunitario: non possiamo essere veri cristiani se non in quanto comunione di credenti, in quanto Corpo vivente di Cristo, in quanto Chiesa nutrita dell’Eucaristia. Cerchiamo di esprimerlo ora come possiamo uniti nell’ascolto della Parola, nella preghiera, nell’impegno comunque di carità. Ma speriamo di poterlo presto vivere in pienezza, qui, in chiesa, celebrando insieme l’Eucaristia.

+ vescovo Carlo