«Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via?»

Sunday 12 April 2020

Domenica 12 aprile, Pasqua di Resurrezione, il vescovo Carlo ha celebrato alle 18.30 la messa in cattedrale a porte chiuse. Pubblichiamo di seguito la sua omelia.

Celebrare la Pasqua alla sera porta a proclamare, per una sorta di consonanza temporale, il brano del Vangelo di Luca che narra dei discepoli di Emmaus collocando l’episodio verso la sera di quello stesso giorno di Pasqua.

Non sappiamo dove si trovi Emmaus. L’evangelista però ci indica con precisione la distanza da Gerusalemme: undici chilometri. A fronte di questa notizia, i  commentatori del Vangelo, anche quelli dei primi secoli, non sono però riusciti a identificare con altrettanta precisione a quale villaggio o città corrisponda l’Emmaus dei Vangeli. Ma il dato degli undici chilometri resta. Undici chilometri sono circa due ore di cammino. Un tempo significativo, che i due vivono in modopiuttosto animato: dice il Vangelo che «conversavano e discutevano insieme», sicuramente ad alta voce, al punto di attirare l’attenzione di un pellegrino sconosciuto e di permettergli di inserirsi nella discussione senza apparire maleducato o invadente.

A che fase del cammino c’è questo incontro tra i due e lo sconosciuto? Il Vangelo non lo dice: sicuramente non alla partenza a Gerusalemme, ma neppure troppo vicino alla meta. C’è statoinfatti il tempo per un dialogo tra di loro per narrare di Gesù e dei fatti accaduti negli ultimi giorni e poi per Gesù – ma siamo noi ascoltatori che sappiamo chi è il pellegrino sconosciuto e non i due – per spiegare le Scritture partendo da tutti i profeti e da Mosè e riferirle a Lui. Potremmo dire che questo ha comportato un’ora o persino un’ora e mezza? Non lo sappiamo, ma è molto probabile.

Ecco, lo confesso, io stasera provo molta invidia verso Cleopa – così Luca dice si chiama uno dei due – e il suo compagno. Avere a fianco Gesù per un’ora e sentire spiegare da Lui la Scrittura, sarebbe un dono meraviglioso. E non importa se cominciasse il dialogo con me da un rimprovero come quello che ha rivolto ai due: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti». Per altro avrebbe pienamente ragione.

E’ vero: sono, siamo in questo tempo stolti, incapaci di capire. Forse più che oggi, in questi giorni, quando quello che ci sta succedendo ci spinge a rientrare in noi stessi e a porci alcune domande, “stolti” nel tempo precedente a questa crisi, un tempo che stiamo imparando, volenti o nolenti, a giudicare con occhi diversi. Stolto secondo la Bibbia, nella sua accezione più radicale e più forte, è chi non riconosce Dio o persino ritiene che non esista e agisce come se Dio non ci fosse.Saggio invece è chi cerca Dio. Il Salmo 14 lo afferma con queste parole: «Lo stolto pensa: “Dio non c’è”. Sono corrotti, fanno cose abominevoli: non c’è chi agisca bene. Il Signore dal cielo si china sui figli dell’uomo per vedere se c’è un uomo saggio, uno che cerchi Dio». Siamo quindi stolti nel non cercare Dio.

Ma siamo anche «lenti di cuore». Il cuore per la mentalità biblica è la sede dell’intelligenza più che dei sentimenti; noi per l’intelligenza ci riferiamo alla testa, al cervello. Però è anche vero che il nostro comprendere non si svolge mai su un piano di una mera razionalità asettica, ma è sempre condizionato da precomprensioni che partono dalle nostre emozioni e persino dal nostro subconscio. Lenti di cuore, quindi, perché impediti nel capire, nel vedere la presenza di Dio in mezzo a noi e nella nostra vita, vincolati dai nostri pregiudizi, bloccati dal nostro sentire. Quando si è stolti e lenti di cuore, allora anche gli occhi è come se non vedessero: vedono, non sono ciechi,ma non riconoscono. E’ ciò che è successo ai due discepoli. Dice l’evangelista all’inizio del racconto: «i loro occhi erano impediti a riconoscerlo» e alla fine annota al contrario: «allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero». E’ una questione di occhi: non è il loro compagno di viaggio che si nasconde e poi si rivela, ma tutto dipende dai loro occhi e dalla mente e dal cuore che li comandano.

Dicevo che non mi importa se Gesù mi rimprovera e ci rimprovera. Ciò che conta è che oggi stia accanto a me, accanto a noi, con infinita pazienza, e ci spieghi il senso di tutto alla luce delle Scritture. Il senso di tutto? Ma il senso di tutto è Lui, è il suo mistero di morte e risurrezione. Perché Lui non è solo un «profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo», non è solo qualcuno solidale con noi fino alla morte, ma è il nostro Salvatore, Colui che ci salva rendendoci partecipi della sua Pasqua. Ecco, ho, abbiamo bisogno di comprendere questo e che il Signore ce lo spieghi. Aiutandoci a rileggere il Vangelo – dovremmo avere più tempo in questi giorni – e ad ascoltare con un’altra capacità di attenzione e di comprensione ciò che Lui ci dice.

Il Vangelo di Luca narra che i due discepoli riconobbero Gesù non lungo la via, ma quando arrivati alla meta, invitarono il pellegrino sconosciuto a rimanere con loro quella sera e Lui compì il gesto della benedizione del pane, dello spezzarlo e del darlo a loro. Segno evidente dell’Eucaristia. Allora i loro occhi finalmente si sbloccarono e furono in grado di vedere Gesù.

A noi, tranne che ai sacerdoti e a pochissime persone, è impossibile arrivare oggi all’Eucaristia. Sembra quindi che ci sia impedito di riconoscere Gesù.

Possiamo o forse dobbiamo però stare ancora un po’ per strada con Lui. E se anche non ci dà ancora la possibilità di riconoscerlo in pienezza, la sua vicinanza comunque trasforma e riscalda il nostro cuore. «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?», si dicono l’un l’altro i due discepoli. Questa sera allora non arriviamo a Emmaus, ci tocca restare ancora in cammino e non sappiamo per quanto. Ma c’è Lui accanto a noi. Lo percepiamo perché il nostro cuore un po’ alla volta si sta aprendo, perde la sua stoltezza e la sua lentezza, e si sta riscaldando a opera della sua Parola.

E’ il dono che Gesù ci sta facendo in questa strana Pasqua che ci vede ancora in cammino «col volto triste», certo, ma con il cuore di pietra che si sta sciogliendo per diventare un cuore di carne. Un cuore che sa di non restare deluso. Un cuore di chi sa di essere amato, di non essere abbandonato. Un cuore che sa quanto sono vere le parole di papa Francesco nel suo messaggio pasquale di oggi: «il Signore non ci ha lasciati soli! Rimanendo uniti nella preghiera, siamo certi che Egli ha posto su di noi la sua mano (cfr Sal 138,5), ripetendoci con forza: non temere, “sono risorto e sono sempre con te” (cfr Messale Romano)! ».  

+ vescovo Carlo


Sabato 11 aprile monsignor Redaelli ha presieduto la Veglia Pasquale in cattedrale a porte chiuse. Pubblichiamo di seguito la sua omelia.

Nel periodo che va dal mattino di Pasqua all’ascensione, un tempo simbolicamente racchiuso, stando agli Atti degli apostoli, in quaranta giorni, non sono poche le apparizioni del Risorto. Diverse sono raccontate o solo accennate dai Vangeli e dagli Atti degli apostoli; altre sono elencate da san Paolo, in particolare nella prima lettera ai Corinti dove parla di apparizioni a Cefa, ai Dodici, a Giacomo, agli apostoli, a cinquecento fratelli e allo stesso Paolo (cf 1Cor 15,5-8).

Una cosa che meraviglia in queste apparizioni è la presenza di poche parole di Gesù Risorto. In realtà Luca dice che nell’episodio di Emmaus il Signore spiega le Scritture ai due discepoli increduli collegandole alla sua persona e alla sua passione, morte e risurrezione; lo stesso fa con gli apostoli nel loro insieme quella stessa sera di Pasqua. Ma l’evangelista non ci riporta l’insegnamento di Gesù. Sempre Luca, nel primo capitolo degli Atti, afferma che il Risorto si trattiene con gli apostoli «parlando delle cose riguardanti il regno di Dio» (Atti 1,1), ma non riferisce che cosa egli abbia detto loro. Anche gli altri evangelisti riportano molto poco delle parole dei Risorto: quasi solo quelle che si presentano come un mandato che Gesù affida ai discepoli.

Perché questa poca presenza delle parole del Risorto? Non avrebbero potuto essere molto importanti anche per noi? E forse soprattutto oggi dove sentiamo profondamente il bisogno di una parola che sveli il senso di ciò che stiamo vivendo?

Potremmo tentare alcune risposte. La prima è la constatazione che c’è continuità tra il Risorto e il Gesù terreno che aveva annunciato il regno di Dio, raccontato parabole, compiuto miracoli. Il Risorto è Gesù, sia pure in una dimensione di vita nuova. E Gesù aveva già parlato con abbondanza negli anni della sua missione. Parole che la Pasqua non ha reso inutili, ma caso mai confermato nella loro profonda verità.

Una seconda risposta può venire da quanto affermato da Gesù nei discorsi nell’ultima cena: sarà lo Spirito Santo a far conoscere ai discepoli ciò che sta a cuore a Lui, ciò che il Padre vuole rivelare («Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future»: Gv 16,12-13). E in effetti, grazie all’ispirazione dello Spirito Santo, gli apostoli completeranno l’insegnamento di Gesù, spiegandoci per esempio, come partecipare alla sua morte e risurrezione attraverso il Battesimo, come ci ha ricordato Paolo stasera nel brano della lettera ai Romani (e sempre Paolo, per fare un altro esempio che oggi ci può particolarmente interessare, saprà spiegare bene ai cristiani di Tessalonica e a quelli di Corinto la sorte dei credenti dopo la morte e il tema della nostra risurrezione).

Esiste però una terza e fondamentale risposta alla domanda sul perché non si dà molto rilievo negli scritti del Nuovo Testamento alle parole del Risorto, ed è il fatto che ciò che conta nella Pasqua è l’incontro con Lui. Tutto il resto è secondario. Lui è il messaggio pasquale, anzi il cuore del messaggio cristiano, quello che tecnicamente viene chiamato il kerygma: Gesù, morto e  risorto, è il nostro Salvatore. In Lui c’è la remissione dei peccati, in Lui la morte è sconfitta, in Lui c’è la salvezza, in Lui ci viene data la pienezza della vita. Chi incontra Gesù, trova tutto questo.

Come incontrare allora il Risorto, noi che non siamo tra le donne che al mattino di Pasqua vanno al sepolcro, non siamo gli apostoli e non siamo nemmeno tra i cinquecento che lo hanno visto Risorto? Verrebbe da dire attraverso la Parola e i Sacramenti e la Carità. La Parola possiamo ascoltarla e meditarla, ma ai Sacramenti oggi non possiamo partecipare. Possiamo vivere la carità anche solo in casa e nelle relazioni che riusciamo in qualche modo a mantenere con gli altri, ma la nostra vita comunitaria, il nostro agire è comunque molto limitato. Impossibile allora quest’anno incontrare il Risorto?

Ma il Signore non è dentro di noi? Non è, per usare una bellissima immagine di sant’Agostino, «più interno a me del mio stesso intimo» (Confessioni III,6,11)? Papa Benedetto XVI, grande studioso di Agostino, commentando questa espressione diceva: «La presenza di Dio nell’uomo è profonda e nello stesso tempo misteriosa, ma può essere riconosciuta e scoperta nel proprio intimo» (Udienza generale 30 gennaio 2008). E se quest’anno ci venisse chiesto proprio di incontrare il Signore, quasi senza mediazioni, nella profondità e nella verità della nostra coscienza?

Quest’oggi mi hanno ricordato unantica tradizione friulana tipica di quando si celebrava la risurrezione la mattina del sabato santo. C’era allora l’usanza di lavarsi gli occhi (alcuni lavavano la faccia intera) con l’acqua fresca. Un gesto che voleva simboleggiare purificazione e insieme rinascita. Ma era anche un gesto che voleva togliere dagli occhi il velo di oscurità, che impediva di vedere la novità della Pasqua. Un vedere che non riguarda tanto gli occhi fisici, ma gli occhi interiori, gli occhi della fede all’interno della nostra coscienza.

Quegli occhi – i nostri – che anche in questa strana Pasqua e, forse, proprio in questa strana Pasqua possono vedere il Risorto e vivere la gioia dell’alleluia.

+ vescovo Carlo


Venerdì Santo 10 aprile 2020, l’arcivescovo Carlo ha presieduto in cattedrale l’azione liturgica della Croce.

La liturgia si è svolta a porte chiuse ed è stata trasmessa in diretta sulla pagina Facebook dell’Arcidiocesi e sul canale YouTube Chiesadigorizia.

Pubblichiamo di seguito la sua omelia.

Ascoltando il racconto della Passione di Gesù due sono le nostre reazioni più immediate. Da una parte sentiamo insopprimibile il bisogno di stare in silenzio, in muta e raccolta contemplazione, esattamente come abbiamo fatto poco fa interrompendo la lettura e l’ascolto della passione secondo Giovanni al momento della morte di Gesù. Dall’altra percepiamo anche il forte desiderio di non perdere nulla di quanto abbiamo ascoltato, della ricchezza nascosta in ogni parola, in ogni annotazione che ci viene proposta dall’evangelista. Se tutto il Vangelo deve essere letto, studiato, meditato, pregato parola per parola, questo vale in modo assolutamente speciale per il racconto della passione.

Lasciando a ciascuno di trovare tempo in questa giornata per momenti di silenzio contemplativo della passione, magari fermandosi anche solo per qualche istante a guardare il crocifisso o seguendo per televisione la via crucis di stasera, vorrei ora soffermarmi sulla scena centrale della passione, cioè la morte di Gesù per sottolineare in particolare i doni che ci vengono dati dal Crocifisso.

Stando all’evangelista Giovanni, infatti, Gesù, immediatamente prima e dopo la sua morte, ci offre quattro doni a complemento del dono fondamentale, quello della sua vita data per amore.

Un dono, questo, espresso molto bene dalla parola conclusiva di Gesù: «E’ compiuto!», un’espressione che nel testo originale greco (da tradurre letteralmente “è finito”) si ricollega a quel «li amò sino alla fine» che abbiamo ascoltato ieri a premessa del gesto della lavanda dei piedi.

Sì, sulla croce l’amore di Gesù verso di noi è arrivato alla fine, è giunto al compimento, alla totalità, alla pienezza.

Ma veniamo ai quattro doni. Il primo non sembra essere neppure un dono. Si tratta delle vesti e della tunica. Vengono tolte a Gesù, divise le vesti tra i soldati e affidata a sorte a un soldato la tunica. L’evangelista, però, dà grande rilievo a questo episodio: ovviamente non lo fa a caso, ma per spingerci a coglierne il significato. In realtà, lo abbiamo ascoltato ieri, Gesù si era tolto spontaneamente le vesti per lavare i piedi agli apostoli, per mettersi a nostro servizio. I vestiti, nel contesto culturale antico, diversamente da quanto succede oggi, più che un significato funzionale, ne avevano uno simbolico indicando la dignità della persona. Gesù, lasciando le sue vesti, depone la sua dignità di Figlio di Dio, identificandosi con noi – diventando addirittura “maledizione” per noi, dirà san Paolo in una sua lettera (cf Gal 3,13-14) – per servirci e per salvarci. La tunica così speciale esprime la sua dignità di Figlio. Quella tunica ora è data a ciascuno di noi, perché con il suo sacrificio Gesù ci libera dalla bruttura del peccato e ci riveste della veste bianca redendoci figli di Dio.

Il secondo dono va nella stessa linea. Gesù ci dona sua madre, Maria, e questo conferma il nostro essere figli come Lui. Maria di Nazaret sotto la croce di suo Figlio non è più solo la madre di Lui, ma diventa la Madre di ogni discepolo, della Chiesa, dell’intera umanità. E quanto abbiamo bisogno soprattutto oggi di una madre che ci soccorra, ci aiuti, ci consoli, asciughi le nostre lacrime… L’intercessione di Maria oggi è fondamentale per ottenere salute, forza, speranza. Ma il dono più grande che Lei può chiedere per noi, con la sua intercessione, è il nostro essere e sentirci figli nel Figlio. Figli amati da Dio, perdonati, salvati e non abbandonati.

Anche il terzo dono si riferisce al nostro diventare ed essere figli: ed è il dono dello Spirito. L’evangelista Giovanni non dice semplicemente che Gesù sulla croce “spirò”, ma che «consegnò lo Spirito». La Pentecoste avviene già sul calvario. Lo Spirito è lo Spirito Santo che ci rende figli di Dio e che ci guida nel nostro cammino di figli. Anche in questo momento così faticoso per tutti. Lo Spirito è il Consolatore, Colui che ci rassicura sul nostro essere amati dal Padre; Colui che ci aiuta a vivere in ogni situazione, anche la più difficile, secondo il Vangelo; Colui che intercede dentro di noi e prega, perché noi non sappiamo neppure che cosa domandare; Colui che ci dona sapienza, fortezza, consiglio, ecc. i suoi doni così decisivi per ciascuno di noi.

Il quarto dono del Crocifisso avviene dopo la sua morte: il dono del sangue e dell’acqua che escono dal suo costato trafitto dal colpo di lancia. Anche in questo caso l’evangelista Giovanni dà grande rilievo a ciò che è successo, qualcosa che poteva passare quasi inosservato, un gesto probabilmente previsto dal preciso protocollo romano delle esecuzioni capitali per constatare il decesso del condannato. Invece, sangue e acqua indicano simbolicamente i due sacramenti fondamentali per il cristiano: l’Eucaristia e il Battesimo. Ancora una volta una realtà che riguarda il nostro essere figli. Il Battesimo, infatti, ci rende figli di Dio, facendoci morire al peccato e risorgere alla vita nuova. L’Eucaristia ci nutre del Corpo di Cristo e ci fa partecipare alla sua vita di Figlio di Dio.

Quattro doni del Crocifisso: le vesti e la tunica, la Madre, lo Spirito, il sangue e l’acqua. Quattro doni dati a noi che siamo figli di Dio. Quattro doni da accogliere stando sotto la croce con Maria, le donne e il discepolo amato. Quel discepolo che l’evangelista lascia volutamente anonimo affinché ciascuno di noi si possa identificare con lui. Certo, ci è forse più facile rispecchiarci in altri personaggi che popolano la passione di Gesù. Magari in Giuda o in Pietro, viste le nostre molteplici infedeltà verso il Signore. O forse nei soldati che si limitano a essere strumenti della malvagia volontà di altri. Forse in Pilato, incerto tra il proprio interesse e il bisogno di giustizia e di verità. In fondo ci ritroviamo un po’ in tutti, perché la passione non è che lo specchio della nostra umanità.

Ma il Signore oggi ci può aiutare a essere soprattutto il discepolo amato, a stare sotto la croce, testimoni degli ultimi doni del Crocifisso, quasi un’eredità che ci viene lasciata. Doni da accogliere nella fede, con grande gratitudine e anche con una vera gioia interiore. Perché ciò che conta, anche nelle tenebre di questo venerdì santo, è che siamo figli nel Figlio, amati dal Padre, guidati dallo Spirito.

+ vescovo Carlo

 

Giovedì 9 aprile il vescovo Carlo ha presieduto in cattedrale la messa In Coena Domini.

La liturgia si è svolta a porte chiuse ed è stata trasmessa in diretta sulla pagina Facebook dell’Arcidiocesi e sul canale YouTube Chiesadigorizia.

«Nella notte in cui veniva tradito»: così comincia il racconto della istituzione dell’Eucaristia che l’apostolo Paolo presenta ai Corinzi come abbiamo ascoltato nella seconda lettura. Si tratta di un’espressione ripresa alla lettera o con parole simili nel momento centrale delle preghiere eucaristiche che utilizziamo nelle nostre Messe. E’ una mera indicazione temporale o è qualcosa di più? E se è di più, perché c’è questo legame tra l’Eucaristia e la notte del tradimento? Possiamo rispondere a tale questione facendoci un’altra domanda: perché Gesù ha istituito l’Eucaristia? Ci sono delle risposte vere, ma parziali.

Una prima: per assicurare una sua presenza reale, anche se sacramentale, lungo i secoli della storia della Chiesa in attesa del compimento del Regno. Se questo fosse stato il suo unico intento lo avrebbe potuto realizzare benissimo anche in un altro momento e non prima della passione. Per esempio, collegando l’istituzione dell’Eucaristia alla sua presenza nella preghiera dei discepoli: «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20).

Un’altra risposta: Gesù ha istituito l’Eucaristia per essere nostro cibo e così farci entrare in comunione con Lui e con la sua vita. Ma se è così, il contesto migliore per farlo e  spiegarlo, più che l’ultima cena, poteva essere il miracolo della moltiplicazione dei pani con il discorso sul pane di vita che ne aveva svelato il senso (cf Gv 6).

Un terzo motivo che chiarisce in parte l’istituzione dell’Eucaristia è il darci la possibilità di adorare in modo giusto Dio, con un nostro atto di culto, un nostro sacrificio. Anche in questo caso, il momento più adatto poteva essere un altro. Per esempio il colloquio con la samaritana quando la donna aveva chiesto esplicitamente a Gesù dove bisognasse adorare Dio se a Gerusalemme o sul monte della Samaria e Gesù aveva risposto parlando dell’adorazione in spirito e verità. (cf Gv 4,19-24).

Una quarta spiegazione del perché Gesù ha istituito l’Eucaristia potrebbe riferirsi alla opportunità di offrirci un gesto che ci costituisse come comunità, che ci identificasse come cristiani, ci rendesse Chiesa. Poteva in questo caso istituirla da Risorto collegandola all’invio dei discepoli nel mondo e al Battesimo. Oppure poteva scegliere un momento di convivialità con i suoi discepoli, ma certamente più sereno dell’ultima cena.

Come dicevo, queste varie risposte al perché Gesù ha istituito l’Eucaristia sono tutte legittime, ma incomplete. E’ vero: l’Eucaristia è il sacramento della presenza reale di Gesù;l’Eucaristia è Gesù che, vero pane di vita, diventa nostro cibo e ci permette di entrare in comunione con Lui; l’Eucaristia è il nostro modo di adorare il Padre; infine l’Eucaristia ci rende Chiesa e ci identifica come comunità cristiana (e lo comprendiamo bene, ora che ci manca).

Ma l’Eucaristia non è solo questo, c’è altro e questo altro ci viene rivelato proprio dal collegamento con la notte del tradimento, cioè con la passione. L’Eucaristia, infatti, è il sacramento del sacrificio di Cristo, del dono di sé che Lui ha compiuto sulla croce. Il corpo, dice Gesù, «è per voi»; il sangue, ricorda la versione di Matteo, «è versato per molti per il perdono dei peccati» (Mt 26,28). L’Eucaristia allora è presenza, cibo, comunione, adorazione, sorgente della Chiesa, ma solo perché è il sacramento della croce. Cristo è il vero agnello pasquale: quello dell’Esodo era solo una prefigurazione; la sua è la Pasqua definitiva.

Tramite la celebrazione eucaristica partecipiamo al dono di sé da parte di Gesù, siamo in comunione con Lui ed entriamo nella sua stessa dinamica di amore. Questo come singoli e come comunità credente. Se non fosse così, significa che restiamo solo alla periferia del sacramento, ne cogliamo solo alcuni aspetti, ma non il cuore. Il cuore è l’amore, un amore sino alla fine: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine».

Anche se ascoltiamo ogni anno il giovedì santo il passo del Vangelo di Giovanni che comincia così, tutte le volte ci sorprendiamo che non segua il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia, ma quello della lavanda dei piedi. Un gesto preceduto da un’introduzione che ci sembra esagerata quanto è solenne: «Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava…» e sproporzionata rispetto a quanto segue: «si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto». Forse perché per noi la lavanda dei piedi è poco più di un gesto evocativo, che dà una certa dinamicità alla celebrazione (e ce ne accorgiamo oggi che non possiamo viverlo…) e basta.

Invece c’è una profonda continuità tra quel gesto, l’Eucaristia e la croce. Perché la logica è la stessa: è l’amore. Si ama servendo nelle piccole cose e anche in semplici occasioni, si ama impegnandosi in maniera più impegnativa e magari sui tempi lunghi, si ama mettendo a rischio la nostra vita per gli altri e persino donandola effettivamente per loro. Un amore non generico, non qualsiasi, non il nostro amore così spesso superficiale che la tragica condizione di oggi svela in tutta la sua inconsistenza, ma l’amore di Cristo che dà la vita per noi e ci rende capaci di amare così, che ne siamo coscienti, grazie al dono della fede, o che non ne siamo consapevoli. Questo è il vero miracolo dell’Eucaristia: renderci capaci, noi con le nostre fragilità, i nostri peccati, i nostri tradimenti (appunto «la notte in cui veniva tradito»…) di amare e di amare come Gesù, partendo dall’umile e semplice servizio fino a gesti di cui nessuno penserebbe di essere capace.

Che il Signore ci aiuti questa sera a scoprire così l’Eucaristia, ora che solo pochi la possono celebrare a nome di tutti e molti devono viverla solo nel desiderio e nell’attesa. Ci aiuti a vederne la forza di amore nelle molte testimonianze, piccole e grandi, che questa crisi ci sta offrendo.

Ci aiuti a ricordarci di questo quando Lui ci concederà di riprendere il ritmo normale delle celebrazioni nelle nostre comunità. Il ritmo normale, non certo la stanca e ripetitiva abitudine che a volte caratterizza il nostro celebrare (e di questo chiedo anch’io perdono a Dio con voi). E allora sarà una ripresa piena di gioia, che ci renderà ancora di più e realmente Chiesa, nutrita dal Corpo e dal Sangue di Colui che è il Tradito, il Crocifisso, il Risorto.

+ vescovo Carlo 

***


Mercoledì 8 aprile 2020 l’arcivescovo Carlo ha presieduto in cattedrale una liturgia penitenziale in preparazione alla Pasqua.

Pubblichiamo di seguito l’intervento di mons. Redaelli.

Stiamo vivendo questa sera una celebrazione penitenziale molto particolare. In realtà ormai ci stiamo abituando a questo sentirci vicini solo attraverso i social con il vescovo o il prete, magari con una paio di concelebranti, che celebrano da soli nel duomo o nelle chiese deserte. Stasera, però, non celebriamo l’Eucaristia, ma un momento penitenziale del tutto eccezionale, che tutti speriamo resti tale.

Vorrei che non lo vivessimo come una specie di surrogato alla confessione pasquale, ma come un’occasione per riflettere sul tema della richiesta di perdono e della conversione. E così riscoprire il senso della confessione sacramentale, che a volte rischia di essere per molti di noi un fatto di abitudine. Per questo, lascerei stasera eccezionalmente a voi di riflettere sui brani della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, per confrontarci invece molto in concreto su una duplice domanda: che cosa ci manca stasera rispetto alla normale confessione e che cosa invece possiamo accogliere come un dono e un’opportunità di maturazione nella nostra vita di fede?

Vorrei partire da alcuni elementi molto semplici, ovviamente senza alcuna pretesa di completezza, ma con aderenza alla mia e, penso, alla vostra esperienza.

Una prima realtà che stasera viene meno è quella che si pone a livello potremmo dire emotivo-psicologico su un duplice versante. La confessione solita può anzitutto incontrare difficoltà nella nostra sfera emotiva-psicologica in particolare nell’affrontare il dovere di raccontare di noi – e non del meglio di noi… – a un estraneo, a un sacerdote, sia pure ministro della Chiesa. Ma può darci anche una grande soddisfazione allo stesso livello emotivo: avere la sensazione di esserci tolti un peso; provare, almeno per qualche tempo, la percezione di poter voltare pagina; sentirci “leggeri” dopo esserci sfogati e liberati da qualcosa che ci bloccava.

Se manca la confessione, la prima difficoltà sembra essere superata: con Dio, diversamente che con il prete, possiamo confessarci senza paura, senza nascondere niente. Ma è proprio così? Lo può essere solo se Dio viene visto non come un giudice, ma come un padre misericordioso, dove la sua misericordia non consiste nel chiudere un occhio sui nostri peccato, ma nel prenderli molto sul serio, ma proprio per questo nel volerci ancora più bene.

Se manca la confessione, pare poi venire meno inevitabilmente la possibilità di sentirci psicologicamente rassicurati e risollevati. Ma, chiediamoci, lo scopo del sacramento è la soddisfazione emotiva o non piuttosto la scoperta gioiosa – una gioia profonda, molto intima, personale e sincera – di essere amati e perdonati? Una scoperta che può anche portare gioia a livello emozionale, ma che si gioca comunque a livello della fede. Del resto anche nella confessione per così dire normale, è la fede e non la psicologia che ci assicura del perdono.

Un’altra realtà che viene meno stasera è la possibilità dell’incontro con il sacerdote, un incontro che, soprattutto se è il nostro confessore abituale, spesso va al di là del ricevere l’accusa dei nostri peccati e del darci l’assoluzione e diventa invece un confronto sul nostro cammino spirituale con delle indicazione sui passi da fare e sulla verifica di ciò che abbiamo fatto. Si tratta di una semplice direzione spirituale, che per sé non è necessariamente collegata alla confessione, ma che aiuta a vederla come una tappa importante del nostro cammino di vita cristiana. Questo confronto stasera ci manca: è un fatto. Forse per qualcuno è possibile viverlo per telefono (ovviamente senza entrare nelle questioni più intime e personali). Ma per altri?

Suggerirei un duplice aiuto. Il primo è quello che ci viene dagli spunti di riflessione che da più parti ci vengono – e direi con abbondanza… – in questi giorni: le parole del papa, dei vescovi, dei sacerdoti, i video, i testi sui più svariati temi, i sussidi… Dobbiamo fare un po’ da soli, ma con l’aiuto dello Spirito Santo quanto vediamo, ascoltiamo, leggiamo e soprattutto riflettiamo può aiutarci molto per il nostro cammino spirituale.

Un secondo aiuto, più difficile da accogliere, ma non meno prezioso, sono gli apprezzamenti, le indicazioni, le osservazioni e persino le critiche di chi abita con noi e, al di là di qualche inevitabile tensione (che in questi momenti è del tutto scusabile…), ci vuole però bene. Quanto ci dicono gli altri che ci amano, depurato, se volete, da qualche carica emotiva, ci può essere di grande aiuto nel comprendere aspetti di noi (non solo negativi ma anche positivi o comunque con una potenzialità positiva) che spesso ci sfuggono: tutti siamo giudici poco oggettivi di noi stessi.

Una terza realtà che manca evidentemente stasera è l’assoluzione. Non è possibile concederla via streaming, radio, tv telefono o in qualche altra maniera. E allora non siamo perdonati? Ma che cos’è l’assoluzione sacramentale? Non è certo un colpo di bacchetta magica che “sbianca” la nostra anima e la rende foglio immacolato. Niente magia e niente candeggi.

L’assoluzione invece è il momento in cui il sacerdote su mandato della Chiesa e a nome di Dio ci offre il perdono. Ma questo perdono è efficace se accolto, se c’è un reale pentimento, se c’è almeno il desiderio sincero di cambiare vita. E questo perdono ci può essere davvero anche senza assoluzione sacramentale se siamo impossibilitati, come in questo caso, a confessarci, ma c’è la consapevolezza del peccato, il pentimento, il desiderio di cambiare vita (pur consapevoli delle nostre fragilità) e soprattutto se ci lasciamo amare da Dio che ci perdona.

Si dice che perché si realizzi tutto questo occorre un atto di contrizione perfetta. Non vorrei che fraintendessimo questa espressione come se per la confessione normale bastasse un atto di contrizione “così così”, non completo, e invece quando non ci si può confessare dovrebbe esserci la perfezione del pentimento, rendendo ancora più difficile la nostra situazione straordinaria. Non può essere così: sempre, con la confessione o senza, il nostro pentimento deve essere sincero, deve essere totalmente quello che possiamo e riusciamo a esprimere in quel preciso momento, senza perfezionismo, ma anche senza compromessi. Possiamo dire allora:

“Signore, stasera mi dispiace di vero cuore di non essermi comportato da tuo figlio, di essermi spesso dimenticato del Vangelo, di non essermi accorto che mi vuoi bene, di aver rovinato la bellezza della tua Chiesa, di non aver vissuto la comunione dei santi.

Sono contento che mi ami, anzi che mi ami ancora di più proprio perché sono debole e peccatore, e per questo conto sul tuo perdono e ti chiedo il dono del tuo Spirito perché la mia vita, pur con le sue fragilità, possa proseguire verso la meta del tuo Regno.

E quando mi sarà possibile, avrò la gioia anche di venire in chiesa a ringraziarti, anche attraverso il sacramento della riconciliazione, per il perdono che – ne sono certo – stasera mi doni. Grazie”.

+ vescovo Carlo