Come vivere il servizio alla comunità?
L'incontro con gli amministratori locali presso la Sala "Cocolin" del Liceo "Paolino d’Aquileia" a Gorizia
17-12-2012

Sono molto contento di incontrarvi questa sera non solo per porgere i migliori auguri di un buon Natale a voi, alle vostre famiglie, alle comunità che amministrate, ma per una prima conoscenza e, se lo vorrete, per un possibile percorso di condivisione e di scambio di opinioni.

Penso sia utile all’inizio sottolineare che mi presento qui come vescovo di questa diocesi, un incarico tipicamente ecclesiale e che vuole stare in questo ambito senza invadere competenze e responsabilità di altri. Credo però molto come vescovo a quanto affermato nel primo articolo dell’accordo di revisione del Concordato lateranense del 1984: «La Repubblica italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti ed alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese».

Questa “reciproca collaborazione” nella distinzione degli ambiti dice che la Repubblica italiana intende la sua laicità – e la Chiesa cattolica è d’accordo – non come rifiuto o indifferenza verso il fenomeno religioso, ma come attenzione, rispetto e valorizzazione della dimensione religiosa dei propri cittadini come singoli e come associati e per questo vuole avvalersi dell’apporto delle Chiese e delle Confessioni religiose in genere in quanto finalizzato alla promozione della persona e del bene del Paese.

Quanto dirò vuole pertanto muoversi in questo contesto ed avere sempre presente come scopo la promozione della persona e il bene della porzione d’Italia che è la realtà sociale in cui siamo inseriti.

Se permette, vorrei anzitutto pensare alla promozione di voi come persone. Riflettendo sul vostro compito così delicato e spesso, soprattutto oggi, non stimato, perché accomunato all’attuale cattiva fama – per non dire di peggio… – che la politica e chi la vive ha nell’opinione pubblica, mi è venuto in mente un brano un po’ particolare della Sacra Scrittura, tratto dal cap. 9 del libro dei Giudici. Ve lo leggo: «Si misero in cammino gli alberi per ungere un re su di essi. Dissero all’ulivo: “Regna su di noi”. Rispose loro l’ulivo: “Rinuncerò al mio olio, grazie al quale si onorano dèi e uomini, e andrò a librarmi sugli alberi?”. Dissero gli alberi al fico: “Vieni tu, regna su di noi”. Rispose loro il fico: “Rinuncerò alla mia dolcezza e al mio frutto squisito, e andrò a librarmi sugli alberi?”. Dissero gli alberi alla vite: “Vieni tu, regna su di noi”. Rispose loro la vite: “Rinuncerò al mio mosto, che allieta dèi e uomini, e andrò a librarmi sugli alberi?”. Dissero tutti gli alberi al rovo: “Vieni tu, regna su di noi”. Rispose il rovo agli alberi: “Se davvero mi ungete re su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra; se no, esca un fuoco dal rovo e divori i cedri del Libano».

Non ci interessa qui approfondire il motivo per cui questo apologo viene raccontato nella Bibbia, né la conclusione che fa ritenere che chi alla fine accetta di avere autorità finisca per esercitarla in modo dispotico. Vorrei invece soffermarmi sugli alberi che si sottraggono al compito di sovrintendere agli altri per non avere fastidi e non compromettere i loro interessi personali. Può essere la tentazione di tutti, soprattutto quando il contesto sociale, economico e politico diventa difficile. La domanda è «chi me lo fa fare ad agitarmi per gli altri, se ci perdo solo tempo, sonno e magari rischio di compromettere valori importanti come la mia salute, la mia famiglia, il mio lavoro?». La tentazione sarebbe che, se proprio devo farlo, allora è inevitabile finalizzare almeno in parte il mio operato agli interessi che mi stanno a cuore senza andare troppo per il sottile.

Non è facile impegnarsi oggi in un compito di responsabilità e farlo per uno scopo di servizio alla comunità. Per questo desidero esprimervi il mio apprezzamento e il mio incoraggiamento. Anche se non vi conosco, so che avete assunto il vostro incarico per servire generosamente gli altri, pur con i limiti e le fatiche che ciascuno di noi ha, e questo oggi non è né scontato, né facile. Grazie allora per questo vostro impegno e continuate con coraggio al di là degli applausi che a volte ci sono e tante altre volte mancano.

Ma come vivere il servizio alla comunità? Mi rifaccio anche qui a un brano della Scrittura, preso dal profeta Ezechiele. Come sapete, i profeti non erano tanto coloro che predicevano il futuro, quanto piuttosto persone di fede che interpretavano a nome di Dio il loro presente senza paura di dire parole chiare e anche dure, come nel passo contenuto nel cap. 34. Si tratta di un’invettiva verso i pastori di Israele intesi in senso figurato, cioè le guide del popolo. L’immagine pastorale era allora molto chiara, perché partiva dalla concreta esperienza di un contesto dove era molto forte la pastorizia, ma è comprensibile anche per noi oggi. Ascoltiamo che cosa dice il profeta: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: “Figlio dell’uomo, profetizza contro i pastori d’Israele, profetizza e riferisci ai pastori: Così dice il Signore Dio: Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate. Vanno errando le mie pecore su tutti i monti e su ogni colle elevato, le mie pecore si disperdono su tutto il territorio del paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura. Perciò, pastori, ascoltate la parola del Signore: Com’è vero che io vivo – oracolo del Signore Dio –, poiché il mio gregge è diventato una preda e le mie pecore il pasto d’ogni bestia selvatica per colpa del pastore e poiché i miei pastori non sono andati in cerca del mio gregge – hanno pasciuto se stessi senza aver cura del mio gregge –, udite quindi, pastori, la parola del Signore: Così dice il Signore Dio: Eccomi contro i pastori: a loro chiederò conto del mio gregge e non li lascerò più pascolare il mio gregge, così non pasceranno più se stessi, ma strapperò loro di bocca le mie pecore e non saranno più il loro pasto”».

L’invettiva del profeta può essere letta anche in chiave positiva: basta fare il contrario di quanto mettono in pratica i pastori malvagi. Così in effetti – sottolinea successivamente il testo di Ezechiele – opera Dio, il vero pastore, e Davide, il re ideale.

Il rimprovero del profeta non è rivolto solo ai pastori inadeguati, ma anche alle pecore: «A te, mio gregge, così dice il Signore Dio: Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri. Non vi basta pascolare in buone pasture, volete calpestare con i piedi il resto della vostra pastura; non vi basta bere acqua chiara, volete intorbidire con i piedi quella che resta. Le mie pecore devono brucare ciò che i vostri piedi hanno calpestato e bere ciò che i vostri piedi hanno intorbidito. Perciò così dice il Signore Dio a loro riguardo: Ecco, io giudicherò fra pecora grassa e pecora magra. Poiché voi avete urtato con il fianco e con le spalle e cozzato con le corna contro le più deboli fino a cacciarle e disperderle, io salverò le mie pecore e non saranno più oggetto di preda: farò giustizia fra pecora e pecora». Come si vede, anche le pecore – i cittadini – hanno le loro responsabilità.

Vorrei fare alcune sottolineature su questo servizio alla comunità, parlando del bene comune ma con un procedimento forse un po’ particolare. Partirei dal basso, da quello che in prima battuta interessa ciascuno, anche legittimamente, cioè l’interesse personale o privato. Non è necessariamente qualcosa di negativo; è giusto che ognuno prenda a cuore ciò che gli appartiene: la propria famiglia, le proprie cose, il proprio lavoro, le proprie idee, i propri hobbies, ecc. E che magari faccia questo condividendo gli interessi con altri che ne hanno di simili. Come pure è ovvio che i portatori di questi interessi cerchino una modalità per essere rappresentati nelle sedi opportune attraverso coloro che si occupano dell’ambito politico-amministrativo.

È però esperienza di buon senso che se ciascuno cerca il proprio interesse a prescindere da quello degli altri, senza coordinarlo o almeno equilibrarlo con quello altrui, alla fine non riesce a perseguire neppure il proprio. L’esempio banale è quello di chi vende un prodotto: se cerca il massimo guadagno, non trova nessun compratore e perde tutto; il prezzo dovrebbe essere il punto di equilibrio tra l’interesse (il guadagno) di chi vende e quello (il valore della cosa) di chi compra. Possiamo allora parlare di interesse comune.

Per quel che si può capire anche da parte di chi non è addetto ai lavori, oggi in Italia si cercano troppi interessi particolari ma non si persegue l’interesse comune. Da qui le difficoltà in cui ci troviamo, il corporativismo che fa chiudere a riccio le diverse categorie, la fuga dalla responsabilità (è sempre colpa degli altri…), il populismo demagogico, ecc.

Già se si riuscisse a perseguire almeno l’interesse comune – che è più della somma degli interessi di parte perché deve farsi carico anche dei bisogni e delle spese comuni (come la gestione di un condominio è più della somma della gestione dei singoli appartamenti) – la società sarebbe sicuramente migliore. Spetta al politico e all’amministratore, che pure è ovviamente portatore di interessi parziali (anche solo ideologici), fare sintesi e portare all’interesse comune, cominciando a convincere la propria parte dell’opportunità di procedere così e poi anche l’insieme della collettività.

Basterebbe allora perseguire l’interesse comune per far funzionare la società? Sì, se tutti fossero in qualche modo portatori di interessi privati e fossero capaci di difenderli. Ma non tutte le “pecore” sono sane e ben pasciute, ci sono anche quelle deboli, magre, malate. Fuor di metafora, ci sono anche persone che non hanno interessi da difendere, perché non sanno neppure di poterli avere o hanno interessi che – scusate il gioco di parole – non interessano nessuno. Dovrebbero invece stare a cuore a chi amministra la cosa pubblica, a chi deve perseguire non solo l’interesse comune – sintesi degli interessi di parte – ma il “bene comune”, che è il bene dell’insieme, di tutti e di ciascuno, anche di chi è il meno capace di tutelarsi e di essere tutelato.

È chiaro che questo non è un compito facile, perché l’interesse dei deboli è in genere un interesse “debole”, che non porta voti, consensi, appoggi. Il politico deve essere capace di convincere la parte che fa riferimento a lui non solo a non chiudersi nel proprio interesse privato e quindi ad aprirsi all’interesse comune, ma anche a essere disposta a perseguire l’interesse di chi non ha nulla o quasi, pagando, se necessario, qualcosa. Un interesse che sta molto a cuore alla Chiesa, perché è consapevole della dignità di ogni persona, sapendo che ognuno è figlio di Dio.

Un tale atteggiamento non è facile soprattutto in una società della “democrazia dei due terzi”. Se i due terzi della società sono “pecore grasse” possono democraticamente dimenticarsi del terzo formato dalle pecore magre: che cosa c’è di più democratico della maggioranza dei due terzi? Ma una democrazia senza solidarietà può considerarsi ancora tale?

Forse la crisi attuale, che sta erodendo i due terzi “benestanti”, potrebbe – preciso potrebbe, ma non è automatico – costringere a ripensare maggiormente la politica e l’amministrazione in termini di solidarietà e di bene comune.

Il bene comune, però, ed è un altro aspetto su cui mi pare giusto insistere visto il contesto sociale in cui siamo inseriti, non è solo fare l’interesse di tutti anche dei deboli, ma è pure offrire ideali e prospettive al cammino di una comunità. Gestire alla meno peggio l’esistente, pur con criteri di giustizia e di solidarietà, non basta. Che progetto ha una comunità? Che futuro propone ai giovani? Chi ha responsabilità politica e amministrativa dovrebbe avere un di più di speranza rispetto agli altri, un di più di progettazione, di idealità. Il bene comune è anche la costruzione del futuro. Un futuro magari non facile da raggiungere, ma che deve essere proposto, aiutando coloro che si rappresentano a non chiudersi nell’orizzonte miope dell’oggi. Non è facile: chi governa o amministra deve essere attento al consenso, ai sondaggi, ma può e deve determinare il consenso e i sondaggi con la sua capacità di proposta.

Non invidio chi ha un compito nella politica: deve essere insieme in grado di rappresentare interessi particolari, di sintetizzarli in un interesse comune, di far evolvere quest’ultimo verso il bene comune e infine di allargare l’orizzonte della società al futuro. Aggiungerei per gli amministratori, la capacità anche tecnica di realizzare quanto deciso sapendo scegliere le soluzioni più utili e convenienti per la comunità, vigilando sulla loro attuazione, programmandole in modo compatibile con le risorse e così via…

Vorrei concludere citando un brano di Vangelo che è molto significativo anche per gli amministratori. E’ tratto dal Vangelo di Marco al cap. 6: «Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”. Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte».

Andare in disparte, anche semplicemente rientrare in se stessi al termine di una impegnativa giornata, per ritrovare se stessi, le proprie motivazioni, calmare le proprie emozioni, elaborare i propri sogni,…: è fondamentale per tutti, in particolare per chi ha un compito verso gli altri. E’ anche un’esigenza psicologica: tecnicamente si parla di burnout, quando ci si brucia per sovraccarico di lavoro, di stress e si finisce anche per perdere le motivazioni del proprio agire.

Per chi di voi è credente, vorrei ricordare che in quella “camera segreta” del proprio cuore in cui si deve entrare chiudendo la porta, c’è il Padre che vede nel segreto (cf Mt 6, 5-6). Ovviamente non c’è solo per i credenti… ma per chiunque si sente spinto a cercare ciò che è vero, giusto, buono e bello anche grazie al proprio servizio alla società.

Auguri e buon lavoro.

† Vescovo Carlo