"Ed egli disse questa parabola..."
Liturgia penitenziale in cattedrale al termine delle "24 ore per il Signore"
05-03-2016

La celebrazione della Liturgia penitenziale in Cattedrale, la sera di sabato 5 marzo, ha concluso gli incontri promossi in diocesi in occasione delle “24 ore per il Signore”. Pubblichiamo di seguito il testo della meditazione tenuta dal vescovo Carlo.

 

Non è frequente leggere insieme tutte e tre le parabole contenute nel cap. 15 del Vangelo di Luca. Si leggono di solito le prime due o la terza: questa, a volte, in particolare nelle celebrazioni penitenziali, si legge solo a metà finché il figlio minore ritorna. Invece è importante considerarle insieme e dare giusto rilievo alla introduzione, che spiega perché Gesù le ha raccontate. La rileggo: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Ed egli disse loro questa parabola».

Chi sono questi “loro” cui Gesù dice le tre parabole? L’evangelista non lo precisa. Dal contesto è evidente che vengono raccontate anzitutto per i farisei e gli scribi che contestano il modo di agire di Gesù. Ma anche i pubblicani e i peccatori sono lì per ascoltare Gesù: anche questa categoria di persone è compresa nel “loro”. Stasera ci siamo anche noi, ascoltatori del Vangelo, una Parola sempre viva ed efficace: pure noi siamo parte del “loro”.

Se è così vorrei impostare questa riflessione in tre momenti. Cercherò anzitutto di interpretare l’ascolto dei farisei e degli scribi, i loro sentimenti, i loro ragionamenti, le loro reazioni. Poi, in un secondo momento, darò voce all’ascolto dei pubblicani e dei peccatori. Il terzo momento lo lascio a voi: nel silenzio, raccogliendo le risonanze di quanto detto dagli altri e lasciandovi guidare dallo Spirito, provate a sentirvi direttamente interpellati dalla Parola di Gesù. Potrà cambiare il vostro modo di confessarvi e, forse, la vostra stessa vita.

 

Tocca dunque a noi, farisei e scribi, parlare. Sappiamo che voi cristiani avete una visione negativa di noi: “fariseo” è diventato persino sinonimo di “ipocrita”, di falso; definire un comportamento religioso come “farisaico” equivale a considerarlo esteriore, formale, appunto falso. Siamo stati definiti con tono dispregiativo “setta”.

Non sappiamo chi vi ha messo in testa queste idee. Noi farisei siamo, infatti, il meglio del popolo di Israele, i discendenti del movimento dei maccabei, che hanno difeso a costo della vita la fedeltà all’Altissimo. In un mondo dove la cultura greca dominante era pagana ed atea, noi abbiamo mantenuto fede alla Torah, alla Legge. Gli altri sono stati ipocriti, non noi! Forse ricordate quanto afferma l’inizio del primo libro dei Maccabei presentando con orrore l’atteggiamento di quegli ebrei che per gareggiare nelle palestre greche, nudi, avevano persino cancellato i segni della circoncisione (cf 1Mc 1,14-15). Purtroppo ancora oggi c’è chi, come questi maledetti pubblicani, si è venduto ai pagani e si presta a esigere le tasse per loro. E Gesù li approva. Come è possibile?

Certo questo sedicente profeta cerca di giustificarsi con alcune parabole, con questi raccontini solo in apparenza ingenui e innocui, ma in realtà molto pericolosi. Ve lo possiamo dimostrare.

Per esempio, nel primo racconto già la prima domanda retorica è un imbroglio: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?». Abbandonare le novantanove nel deserto, così che diventino facile bottino di predoni e di lupi e di altre bestie selvatiche? Ma quale pastore farebbe questo? E per una pecora perduta? Ma se si è persa, peggio per lei, non è possibile mettere a repentaglio le altre per andare a cercarla. Ma forse la colpa della sua perdita è del pastore: troppo buono, non ha saputo tenere la disciplina. O forse dei suoi guardiani e dei cani pastori: una volta dicevano le cose belle chiare, precisavano con forza quello che è peccato e quello che non è, ma oggi tacciono, non castigano, non condannano più nessuno …

Ma poi, siete così sicuri che oggi sia persa una sola pecora? Al contrario! Quasi tutte si sono perse e solo pochissime sono rimaste fedeli. Del resto vi ricordate quando il nostro padre Abramo aveva contrattato con l’Altissimo la salvezza di Sodoma e Gomorra: si erano accordati per la salvezza delle città se ci fossero stati almeno dieci giusti (cf Gn 18,22-32). Sappiamo come è andata a finire: non ce n’erano neanche dieci e le città malvage hanno così ricevuto il giusto castigo. Oggi è peggio del tempo di Sodoma e Gomorra…

Anche la parabola della moneta non ci convince: come fa una moneta a perdersi? Non è forse colpa della padrona che non ha saputo custodirla? Doveva darsi da fare prima e non quando ormai è persa. Troppa libertà, troppa misericordia, per questo il mondo va male…

Fare festa poi per una pecora ritrovata, mettersela addirittura sulle spalle invece di rimproverarla…, e per una moneta recuperata? Non si dovrebbe invece fare festa per le novantanove pecore brave (o meglio per le pochissime brave) e per le nove monete rimaste al loro posto?

Ma la parabola su cui non siamo assolutamente d’accordo è la terza. Altro che “figlio prodigo”…, qui c’è un “padre prodigo” che sconsideratamente dà via le sue ricchezze prima del tempo. Eppure la Scrittura, con molta saggezza, nel libro del Siracide dice: «Al figlio e alla moglie, al fratello e all’amico non dare un potere su di te finché sei in vita. Non dare ad altri le tue ricchezze, perché poi non ti penta e debba richiederle. […] Quando finiranno i giorni della tua vita, al momento della morte, assegna la tua eredità» (Sir 33,20-24). Speriamo almeno che il padre abbia diviso i beni dando al maggiore i due terzi dei beni e al minore un terzo, come prescrive la legge di Mosè nel libro del Deuteronomio (cf Dt 21,17): ma non ne siamo sicuri, da una padre così c’è da aspettarsi di tutto.

E, difatti, è proprio così. Passi il fatto che fosse triste per la perdita di un figlio disgraziato: però è un sentimento che può essere comprensibile per una mamma, ma non per un padre che deve essere severo e giusto anche per il bene dei figli. Si può forse capire che stesse ogni tanto sulla soglia a vedere se quel disgraziato tornava, ma dal momento in cui quello è arrivato quel padre si è comportato in modo del tutto irragionevole.

Eppure quel figlio stava riconoscendo il suo peccato, più per interesse (diciamolo chiaro: per fame…) che per vero pentimento. E il padre che cosa fa? Neppure lo lascia parlare (ma la confessione dei peccati non è un elemento fondamentale anche per voi?…), non lo rimprovera, non lo castiga, non gli impone come minimo dieci anni di lavoro per restituire almeno in parte i soldi sprecati, non tiene nascosta la cosa per evitare l’imbarazzo con i vicini (i panni sporchi si lavano in casa…) e invece gli organizza una festa e fa cosa assurde.

Forse voi non le capite bene perché non conoscete le nostre usanze. Ve le spieghiamo. Anzitutto la veste: voi siete in una cultura dove la gente si esibisce applaudita senza vestiti o quasi, dove non si dà più rilievo alla divisa, dove il papa e i vescovi non usano più le vesti adeguate al loro ruolo, … da noi non era così: la veste era segno della dignità e dell’importanza della persona. E qui che cosa succede? La veste più bella, come la tunica con le maniche lunghe che Giacobbe aveva donato a Giuseppe suo figlio prediletto (cf Gn 37,3), fatta indossare a un farabutto?

E l’anello, poi. L’anello per noi non è un gioiello qualunque e già se fosse solo questo sarebbe da non dare a uno che (siamo pronti a scommetterlo…) farà in fretta a venderlo per giocare a soldi o per andare a donne (i vizi non si perdono…). L’anello è la carta di credito, è la firma, ciò che sigillava i contratti, gli impegni bancari, ecc. Con l’anello, il padre ridà in mano a quel figlio tutti i suoi averi. Pura pazzia.

E il vitello? Abramo uccide un vitello e prepara un pranzo succulento con quella carne tenera quando l’Altissimo lo va a trovare alle Querce di Mamre (cf Gn 18,7-8): accogliere un figlio disgraziato come si accoglie l’Altissimo? E’ una bestemmia!

E veniamo al figlio maggiore. E’ evidente che Gesù pensava a noi mentre presentava la reazione sdegnata di quel bravo ragazzo, che però ne aveva tutti i motivi. Lui, pur avendo ricevuto la sua parte di eredità, era rimasto in casa, aveva servito il padre per anni, non aveva trasgredito un solo suo comando, … eppure non aveva avuto niente. Arriva il fratello, drogato, alcolizzato, puttaniere (e chi più ne ha più ne metta…) e si fa festa con musiche e danze (ma una volta il ballo non era proibito? …). Sì, siamo con il figlio maggiore. E non è che anche voi siete d’accordo con noi?

State dicendo che in fondo il padre è uscito incontro al figlio maggiore, che ha cercato di spiegarsi, di farlo ragionare … Che, insomma, a quel punto tanto valeva far buon viso a cattivo gioco e partecipare alla festa? Ma la dignità dove la mettete? Se il padre l’ha persa, almeno un figlio deve custodirla.

Non siamo d’accordo neppure con l’atteggiamento del padre che esce a cercare il figlio maggiore come se fosse lui la pecora perduta da ritrovare. Passi – come dice il vostro papa – una Chiesa in uscita, ma un padre in uscita … no, non è possibile, è troppo.

 

Tocca ora a noi, pubblicani e peccatori, parlare. Non la faremo lunga come i farisei. Certo ci fa piacere che Gesù sia attento a noi, che non ci giudichi, che non ci disprezzi come fanno gli altri, anzitutto, appunto, i farisei. Ci piacciono queste parabole, ma, ad essere sinceri, su tre punti abbiamo qualche perplessità.

Anzitutto è vero che siamo peccatori: paragonarci a una pecora e a una moneta perdute passi, ma identificarci tutti e sempre con il figlio prodigo, forse è un po’ esagerato. Peccatori sì, ma non troppo. Qualcosa di buono lo abbiamo pur fatto: non è così anche per voi?

C’è poi un secondo aspetto che non ci persuade. E’ il fatto che il pastore, la donna, il padre fanno tutto loro: la pecora non fa niente per farsi ritrovare, lo stesso la moneta. Almeno il figlio prodigo ritorna e vorrebbe ripagare il danno fatto lavorando come un salariato: ma il padre, niente. Vorremmo un po’ di merito per noi, riparare in qualche modo ai peccati: troppa misericordia ci imbarazza, accogliere la grazia e basta ci sembra troppo poco.

Un ultimo punto non ci convince ed è il fatto che il figlio prodigo è riaccolto con la piena dignità di un figlio. E’ bello, ma è troppo impegnativo. Perché, se è così, bisogna poi comportarsi da figli, avere gli stessi sentimenti del Figlio, di Gesù, conoscere la sua Parola, pensare come Lui, agire come Lui, amare come Lui, servire come Lui… E’ troppo!

Restiamo ai comandamenti, ci bastano. E’ già tanto osservarli: pensiamo che Dio potrebbe accontentarsi o no? Non siete d’accordo anche voi? Così potrete continuare a confessarvi che magari non siete andati qualche volta a messa, che dite le parolacce, che avete litigato con la vicina, che avete commesso atti impuri, che avete detto bugie, …

Altrimenti, se ci considerassimo davvero suoi figli, dovreste cambiare anche il vostro modo di accostarvi al sacramento della riconciliazione. E forse dovreste confessarvi di non essere convinti di essere suo figli, di non lasciarvi amare da Dio, di non danzare con Lui, di non ascoltare la sua Parola, di non leggere il Vangelo, di non pensare come Lui, di non avere i suoi sentimenti, di non amare come Lui. In fondo di non voler partecipare alla festa che vi ha preparato anche stasera.

E’ uscito per invitarvi.