L'Eucarestia è amore
Omelia nella Messa in Coena Domini 2021
01-04-2021

L’arcivescovo Carlo ha presieduto questa sera, Giovedì santo, 1 aprile 2021, la messa in Coena Domini in cattedrale pronunciando la seguente omelia.

Vent’anni dopo la morte e risurrezione di Gesù, precisamente nell’anno 50, un uomo arriva in una grande città della Grecia: Corinto. Una città capitale dell’Acaia, governata da un proconsole romano, con circa 500.000 abitanti. posta in una posizione geografica invidiabile con due porti su due mari, lo Ionio e l’Egeo. Una città quindi di scambi e di commerci, ma anche famosa per traffici meno leciti e per una moralità poco edificante: non per niente la protettrice di Corinto era Afrodite,la dea dell’amore.

Quell’uomo era un ebreo, convertito alla nuova religione, di nome Saulo, ma ormai conosciuto con il nome romano di Paolo. Sta girando la Grecia per annunciare il Vangelo. Era appena stato ad Atene, una città intellettuale, che non gli aveva riservato una grande accoglienza, anzi. Quando nella piazza principale aveva cominciato a parlare di Gesù, molti lo avevano ascoltato, ma appena aveva accennato alla risurrezione, l’ascolto si era interrotto bruscamente. Qualcuno si era messo a deriderlo e altri gli avevano detto: “ci sentiremo un’altra volta” (cf Atti 17,32). Così Paolo si era allontanato da Atene ed era andato a Corinto. Lì, invece, aveva trovato accoglienza e molti erano diventati cristiani. Gesù stesso una notte gli era apparso per dirgli che aveva un popolo numeroso in quella città.

Paolo si fermò a Corinto un anno e mezzo. Il capitolo diciottesimo degli Atti degli Apostoli dice che in quel periodo Paolo «insegnava fra loro la parola di Dio» (Atti 18,11), ma non riferiscedi preciso il contenuto della catechesi dell’apostolo. Lo conosciamo però indirettamente perché cinque anni dopo, da Efeso, Paolo scrive alla giovane comunità cristiana di Corinto affrontando diverse problematiche. Lo fa ricordando più volte quello che aveva loro insegnato.

Una delle questioni che agitavano quella comunità, e che Paolo vuole risolvere, era alquanto antipatica. I cristiani di Corinto si incontravano regolarmente per celebrare l’Eucaristia, ma spesso il loro ritrovarsi diventava occasione di tensioni e di scontro tra di loro. Inoltre, siccome lo facevano collegando quella celebrazione a una cena, capitava che invece di condividere insieme quello che ognuno portava da casa, ciascuno pensasse solo a se stesso. Succedeva così che i ricchi facevano lauti pasti, mentre i poveretti stavano lì a guardarli, pieni di fame.  

Ovviamente la cosa non andava assolutamente bene. Paolo perciò ricorda anzitutto quello che aveva insegnato ai Corinti, cioè ciò che aveva fatto Gesù in quella notte in cui veniva tradito. E’quanto abbiamo ascoltato nella seconda lettura di stasera. Notate che è il racconto più antico che abbiamo dell’ultima cena. Quando Paolo scrive la sua lettera, i Vangeli, almeno nella forma in cui li conosciamo noi, non erano ancora stati scritti. In un certo senso possiamo dire che è stata una fortuna per noi che i cristiani di Corinto non si comportassero troppo bene, così hanno dato l’occasione a Paolo per raccontare per scritto il contenuto della sua predicazione.

Un particolare interessante è il fatto che l’apostolo non ha l’intenzione di insegnare a celebrare l’Eucaristia a quella comunità: lo aveva insegnato qualche anno prima e per quella comunità era diventato ovvio trovarsi per ripetere il gesto di Gesù. Ora, ricordando quell’insegnamento che in realtà era esattamente il racconto di ciò che aveva fatto Gesù, Paolo vuole solo correggere un modo sbagliato di celebrare, un modo che tradiva il senso profondo dell’Eucaristia. Gesù aveva donato il suo corpo e il suo sangue nei segni del pane e del vino per amore. Come era possibile, contemporaneamente alla ripetizione di quel gesto, creare divisioni e tensioni e umiliare i poveri?

Nella continuazione del suo intervento, che stasera non abbiamo letto, Paolo ha quindi parole molto dure circa coloro che stravolgono il senso dell’Eucaristia e che non sanno riconoscere il Corpo del Signore, che è la Chiesa. I credenti, infatti, che si nutrono di Gesù diventano il suo Corpo. Lo afferma Paolo sempre nella prima lettera ai Corinti, qualche riga prima di quelle che abbiamo ascoltato: «Parlo come a persone intelligenti. Giudicate voi stessi quello che dico: il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1Cor 10,15-17).L’insegnamento dell’apostolo è chiaro: l’Eucaristia ci fa diventare Corpo di Cristo proprio perché possiamo essere come Lui. Non si può quindi celebrarla, ripetere il gesto di Gesù in sua memoria, se ci si divide, si litiga, non si è attenti agli altri. Insomma se non si vive la stessa logica di amore di Gesù.

I cristiani di Corinto erano stati battezzati solo da poco tempo. Si potevano anche scusare. Esan Paolo li rimprovera nelle due lettere che ha mandato loro, ma si capisce anche che vuole loro bene e che li perdona. Ma noi? Noi siamo cristiani dalla nascita e le nostre comunità esistono da quasi due millenni. Come e perché celebriamo la Messa? Abbiamo compreso qual è il significato dell’Eucaristia? Quel significato che ci è ricordato anche dal Vangelo di Giovanni, un testo scritto qualche decennio dopo la lettera di san Paolo e successivo anche agli altri tre Vangeli.

Giovanni non parla dell’Eucaristia: come mai? Una grave dimenticanza? Ovviamente no. L’evangelista sa bene che in tutte le comunità cristiane, che si erano nel tempo moltiplicate grazie alla predicazione di Paolo, degli apostoli e di missionari, uomini e donne, si celebrava l’Eucaristia. Ma anche lui era preoccupato che non si perdesse di vista il significato profondo di quella celebrazione: probabilmente anche le comunità a cui indirizzava il Vangelo correvano gli stessi rischi di fraintendimento della comunità di Corinto. Per questo ricorda il gesto di Gesù di lavare i piedi agli apostoli. Un gesto semplice che però l’evangelista introduce con grande solennità: «Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine…, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava…». Dopo queste parole ci si aspetterebbe chissà quale azione, invece semplicemente si dice che Gesù si alza da tavola, si toglie le vesti, prende un catino e un asciugamano e si mette a lavare i piedi agli apostoli.

In quel gesto c’è tutto il senso dell’Eucaristia: che è amore. Un amore che, certo, può arrivare sino a dare la vita, ma che di solito si manifesta in azioni molto semplici di servizio agli altri, di attenzione ai poveri, di riconciliazione. Un amore che è invece tradito se ci sono divisioni, contrapposizioni, pretese, ingiustizie, rancori, disprezzo per i poveri. E’ la vita concreta, quella di ciascuno di noi e delle nostre comunità, ciò che manifesta se abbiamo capito o no il significato profondo dell’Eucaristia. Quel significato che, a ogni buon conto, questa sera Paolo e Giovanni ci hanno ripresentato e che stiamo celebrando. A noi comprenderlo e viverlo.

+ vescovo Carlo