"Non lasciatevi rubare la speranza!"
Incontro con gli amministratori locali - 2013
14-12-2013

Sabato 14 dicembre 2013, in sala “Cocolin”, si è svolto l’ormai tradizionale incontro in vista del Natale tra l’Arcivescovo Carlo e gli amministratori locali

Desidero anzitutto salutarvi e ringraziarvi per aver accolto anche quest’anno l’invito a incontrarci. Lo scorso anno era il primo incontro e penso non mancasse lo stimolo della curiosità reciproca.
Oggi non c’è più la novità legata al cambio del vescovo, ma – come già sottolineavo allora – nel rispetto dei ruoli e delle responsabilità di ciascuno, sono certo che ci sia in tutti noi il desiderio di un momento di confronto e, perché no?, di incoraggiamento reciproco nel compito non facile di essere in ambiti diversi comunque un riferimento per le nostre comunità e per le persone che le compongono.
Il clima natalizio favorisce e forse rende più piacevole un momento di condivisione e anche di scambio di auguri, ma è anche un tempo alquanto pieno di impegni di fine anno e pure per tale motivo vi sono grato di aver bloccato un paio d’ore delle vostre agende per questa occasione di ascolto reciproco.
Ho proposto come tema una frase che papa Francesco ha ripetuto più volte: Non lasciatevi rubare la speranza!, riferendola all’attuale situazione tra crisi e speranza.
Crisi o speranza o crisi e speranza? Vorrei rispondere a questo interrogativo partendo da lontano, da un ricordo personale dell’epoca del liceo. Allora era di moda nel mondo giovanile cattolico preparare dei cosiddetti “recital”, uno spettacolo fatto artigianalmente di diapositive, canzoni di cantautori, poesie di autori impegnati, riflessioni ad alta voce, piccole azioni teatrali.
Avevamo deciso con i miei compagni di farlo sulla speranza. Non ricordo che cosa avessimo poi rappresentato e quali testi avessimo letto, tranne uno che avevo proposto io e che aveva anche fornito il titolo alla rappresentazione.
Si tratta di un brano del profeta Zaccaria che è noto soprattutto perché citato nella sua prima parte dai Vangeli in occasione dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme (cf Mt 21,5; Gv 12,15). Ve lo leggo:
«Esulta grandemente, figlia di Sion,
giubila, figlia di Gerusalemme!
Ecco, a te viene il tuo re.
Egli è giusto e vittorioso,
umile, cavalca un asino,
un puledro figlio d’asina.
Farà sparire il carro da guerra da Èfraim
e il cavallo da Gerusalemme,
l’arco di guerra sarà spezzato,
annuncerà la pace alle nazioni,
il suo dominio sarà da mare a mare
e dal Fiume fino ai confini della terra.
Quanto a te,
per il sangue dell’alleanza con te,
estrarrò i tuoi prigionieri
dal pozzo senz’acqua.
Ritornate alla cittadella,
prigionieri della speranza!» (Zac 9,9-12).

L’intitolazione proposta era proprio quest’ultima frase: “prigionieri della speranza”. Un’espressione strana: che cosa significa? Come può essere che la speranza sia una specie di prigione? O non bisogna intendere più semplicemente “prigionieri che hanno speranza” (ovviamente di liberarsi o di essere liberati)?
Ricordo che allora avevamo comunque optato per il primo significato, volendo far passare un preciso messaggio: non si può non sperare, si è costretti a sperare.
È un messaggio che corrisponde all’intenzione del profeta? Gli studiosi della Bibbia ci dicono di sì, perché il profeta usa due volte lo stesso termine ebraico (miqwe), che ha un doppio senso: pozzo/speranza, giocando sul duplice significato.
Quel pozzo senz’acqua dove si usava buttare i prigionieri per farli morire di fame e di sete (cosa capitata a Geremia ben due volte: Ger 37,13 e 38,6-13: v. 6: «Essi allora presero Geremia e lo gettarono nella cisterna di Malchia, un figlio del re, la quale si trovava nell’atrio della prigione. Calarono Geremia con corde. Nella cisterna non c’era acqua ma fango, e così Geremia affondò nel fango») si trasforma in speranza.
Possiamo allora domandarci: e se la crisi evidente in cui siamo – crisi economica, sociale, politica, culturale, generazionale, demografica, … (e si può andare avanti all’infinito) – che è proprio un “pozzo senz’acqua”, fosse in realtà anche la speranza?
Più volte in questi mesi parlando della crisi ho sentito qualcuno dire: sicuramente una volta toccato il fondo risaliremo. Ma il fondo c’è o sprofonda sempre più in basso man mano che ci si avvicina? E se il fondo fosse quello della cisterna del povero profeta Geremia, un fondo fangoso in cui si affonda senza possibilità di scampo?
No, la speranza non è costituita dalla certezza che a un certo punto un fondo ci sarà o che – si sa, è persino un luogo comune – gli italiani danno il meglio di sé quando vanno male. Questo funziona forse nel calcio: se ai mondiali si perdono le prime partite è un buon segno di possibile vittoria finale, ma nel resto non è detto…
Dobbiamo trovare qualche altro fondamento della speranza. E lo devono trovare persone come voi, uomini e donne che per il loro ruolo oggi non possono limitarsi a liberare il pozzo da un po’ di fango o, nelle migliori delle ipotesi, a cercare di rendere la situazione di chi vi si trova dentro un po’ meno scomoda. No, la gente non vi chiede solo di asfaltare qualche strada o di garantire qualche servizio sociale nonostante le ristrettezze economiche, vi chiede di più. Appunto, la speranza.
Dove trovarla? Vorrei proporvi, in questo intervento che è più un’introduzione a un dialogo, che una relazione articolata, di partire dalle indicazioni di papa Francesco, cui dobbiamo il forte invito “non lasciatevi rubare la speranza”. Vorrei farlo riferendomi a un suo recente documento che, anche se si chiama tecnicamente “esortazione apostolica”, è una vera e propria enciclica programmatica: Evangelii gaudium.
Al termine, se lo gradite, vi omaggerò il testo: piuttosto corposo, ma di lettura scorrevole e con la possibilità di leggere in modo sensato anche solo alcune parti.
Vorrei farne una lettura “laica”, non solo perché non riprenderò le parti più intra-ecclesiali (per esempio i nn. 135-159 dedicati all’omelia, quasi un “manuale” per preti e i predicatori in genere), ma perché mi permetterò di trasportare alcune indicazioni dal campo pastorale a quello dell’amministrazione anche se non mancano nell’esortazione di papa Francesco accenni esplicitamente riferiti alla politica e alle responsabilità amministrative.
Spero di non fare alcuna forzatura, ma avrete poi in mano il testo per una vostra verifica personale.

1. Alcuni no

Parto da alcuni “no” che papa Francesco indica nel secondo capitolo della sua esortazione, significativamente intitolato: Nella crisi dell’impegno comunitario.

No all’accidia egoista

Un primo “no” è all’accidia egoista. Il vocabolo “accidia” è un termine classico ed è enumerato tra i vizi capitali. Viene talvolta inteso come “pigrizia”, ma è molto di più e molto dannoso per l’azione di chi ha responsabilità dentro la Chiesa, ma anche nella società. Ascoltiamo qualche passo del n. 82, dopo che nel numero precedente il papa constata la difficoltà di trovare oggi persone disposte a impegnarsi:
«Il problema non sempre è l’eccesso di attività, ma soprattutto sono le attività vissute male, senza le motivazioni adeguate, senza una spiritualità che permei l’azione e la renda desiderabile. Da qui deriva che i doveri stanchino più di quanto sia ragionevole, e a volte facciano ammalare. Non si tratta di una fatica serena, ma tesa, pesante, insoddisfatta e, in definitiva, non accettata. Questa accidia pastorale [sociale] può avere diverse origini. Alcuni vi cadono perché portano avanti progetti irrealizzabili e non vivono volentieri quello che con tranquillità potrebbero fare. Altri, perché non accettano la difficile evoluzione dei processi e vogliono che tutto cada dal cielo. Altri, perché si attaccano ad alcuni progetti o a sogni di successo coltivati dalla loro vanità. Altri, per aver perso il contatto reale con la gente, in una spersonalizzazione della pastorale [dell’attività amministrativa] che porta a prestare maggiore attenzione all’organizzazione che alle persone, così che li entusiasma più la “tabella di marcia” che la marcia stessa. Altri cadono nell’accidia perché non sanno aspettare, vogliono dominare il ritmo della vita. L’ansia odierna di arrivare a risultati immediati fa sì che gli operatori pastorali [sociali] non tollerino facilmente il senso di qualche contraddizione, un apparente fallimento, una critica, una croce».

No al pessimismo sterile

Un secondo “no” riguarda il pessimismo sterile. Afferma papa Francesco al n. 84:
«I mali del nostro mondo – e quelli della Chiesa – non dovrebbero essere scuse per ridurre il nostro impegno e il nostro fervore. Consideriamoli come sfide per crescere. In questo senso, possiamo tornare ad ascoltare le parole del beato Giovanni XXIII in quella memorabile giornata dell’11 ottobre 1962: «Non senza offesa per le Nostre orecchie, ci vengono riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai […] A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo. Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza, che si realizzano in tempi successivi attraverso l’opera degli uomini, e spesso al di là delle loro aspettative, e con sapienza dispongono tutto, anche le avverse vicende umane, per il bene della Chiesa».
E nel n. 85 continua: «Una delle tentazioni più serie che soffocano il fervore e l’audacia è il senso di sconfitta, che ci trasforma in pessimisti scontenti e disincantati dalla faccia scura. Nessuno può intraprendere una battaglia se in anticipo non confida pienamente nel trionfo. Chi comincia senza fiducia ha perso in anticipo metà della battaglia e sotterra i propri talenti. Anche se con la dolorosa consapevolezza delle proprie fragilità, bisogna andare avanti senza darsi per vinti».

No alla guerra tra di noi

Un terzo “no” è molto chiaro: no alla guerra tra noi. Il papa lo riferisce alla Chiesa, ma vale anche per il contesto sociale: essere avversari, essere in competizione, ma non nemici e avere certamente proposte diverse che provengono da sensibilità e programmi specifici, ma sempre con il riferimento al bene comune. Vi leggo alcuni stralci dei nn. 98-100:
«All’interno del Popolo di Dio e nelle diverse comunità, quante guerre! Nel quartiere, nel posto di lavoro, quante guerre per invidie e gelosie, anche tra cristiani! 99. Il mondo è lacerato dalle guerre e dalla violenza, o ferito da un diffuso individualismo che divide gli esseri umani e li pone l’uno contro l’altro ad inseguire il proprio benessere. In vari Paesi risorgono conflitti e vecchie divisioni che si credevano in parte superate. Attenzione alla tentazione dell’invidia! Siamo sulla stessa barca e andiamo verso lo stesso porto! Chiediamo la grazia di rallegrarci dei frutti degli altri, che sono di tutti. A coloro che sono feriti da antiche divisioni risulta difficile accettare che li esortiamo al perdono e alla riconciliazione, perché pensano che ignoriamo il loro dolore o pretendiamo di far perdere loro memoria e ideali. Ma se vedono la testimonianza di comunità autenticamente fraterne e riconciliate, questa è sempre una luce che attrae».

No a un’economia dell’esclusione

Ci sono poi diversi no che riguardano gli aspetti economico-sociali. Ne riprendo solo uno: no a un’economia dell’esclusione. È il numero 53:
«Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’e¬conomia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della compe¬titività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di que¬sta situazione, grandi masse di popolazione si ve¬dono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’es¬sere umano in se stesso come un bene di consu¬mo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppres¬sione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenen¬za alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”».

2. Quattro indicazioni positive per il bene comune e la pace sociale

Riprendo ora alcune indicazioni in positivo che papa Francesco offre in un paragrafo dedicato al bene comune e alla pace sociale. Sono molto interessanti e originali. Mi limito a elencarle con qualche breve citazione dei testi che potrete trovare a partire dal n. 222.

Il tempo è superiore allo spazio

Un primo principio è che il tempo è superiore allo spazio. Sembra un’espressione un po’ criptica, ma papa Francesco così la spiega applicandola anzitutto proprio all’attività politica:
«Vi è una tensione bipolare tra la pienezza e il limite. La pienezza provoca la volontà di possedere tutto e il limite è la parete che ci si pone davanti. Il “tempo”, considerato in senso ampio, fa riferimento alla pienezza come espressione dell’orizzonte che ci si apre dinanzi, e il momento è espressione del limite che si vive in uno spazio circoscritto. I cittadini vivono in tensione tra la congiuntura del momento e la luce del tempo, dell’orizzonte più grande, dell’utopia che ci apre al futuro come causa finale che attrae. Da qui emerge un primo principio per progredire nella costruzione di un popolo: il tempo è superiore allo spazio.
Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci.
A volte mi domando chi sono quelli che nel mondo attuale si preoccupano realmente di dar vita a processi che costruiscano un popolo, più che ottenere risultati immediati che producano una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la pienezza umana»
.

L’unità prevale sul conflitto

Un secondo principio è che l’unità deve prevalere sul conflitto. Afferma papa Francesco con molto realismo:
«Il conflitto non può essere ignorato o dissimulato. Dev’essere accettato. Ma se rimaniamo intrappolati in esso, perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si limitano e la realtà stessa resta frammentata. Quando ci fermiamo nella congiuntura conflittuale, perdiamo il senso dell’unità profonda della realtà. Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo. «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9).
In questo modo, si rende possibile sviluppare una comunione nelle differenze, che può essere favorita solo da quelle nobili persone che hanno il coraggio di andare oltre la superficie conflittuale e considerano gli altri nella loro dignità più profonda. Per questo è necessario postulare un principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto. La solidarietà, intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa così uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto».

La realtà è più importante dell’idea

Una terza indicazione assolutamente “realistica” afferma che la realtà è più importante dell’idea.
«Esiste anche una tensione bipolare tra l’idea e la realtà. La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà. È pericoloso vivere nel regno della sola parola, dell’immagine, del sofisma. Da qui si desume che occorre postulare un terzo principio: la realtà è superiore all’idea. Questo implica di evitare diverse forme di occultamento della realtà: i purismi angelicati, i totalitarismi del relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza saggezza.
L’idea – le elaborazioni concettuali – è in funzione del cogliere, comprendere e dirigere la realtà. L’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al massimo classificano o definiscono, ma non coinvolgono. Ciò che coinvolge è la realtà illuminata dal ragionamento. Bisogna passare dal nominalismo formale all’oggettività armoniosa. Diversamente si manipola la verità, così come si sostituisce la ginnastica con la cosmesi. Vi sono politici – e anche dirigenti religiosi – che si domandano perché il popolo non li comprende e non li segue, se le loro proposte sono così logiche e chiare. Probabilmente è perché si sono collocati nel regno delle pure idee e hanno ridotto la politica o la fede alla retorica. Altri hanno dimenticato la semplicità e hanno importato dall’esterno una razionalità estranea alla gente».

Il tutto è superiore alla parte

Infine un quarto principio: il tutto è superiore alla parte. Un principio molto utile per chi come voi ha responsabilità locali, ma non può e non deve perdere di vista orizzonti più ampi. Afferma papa Francesco:
«Anche tra la globalizzazione e la localizzazione si produce una tensione. Bisogna prestare attenzione alla dimensione globale per non cadere in una meschinità quotidiana. Al tempo stesso, non è opportuno perdere di vista ciò che è locale, che ci fa camminare con i piedi per terra. Le due cose unite impediscono di cadere in uno di questi due estremi: l’uno, che i cittadini vivano in un universalismo astratto e globalizzante, passeggeri mimetizzati del vagone di coda, che ammirano i fuochi artificiali del mondo, che è di altri, con la bocca aperta e applausi programmati; l’altro, che diventino un museo folkloristico di eremiti localisti, condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi interpellare da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde fuori dai loro confini.
Il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma. Dunque, non si dev’essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. È necessario affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia. Allo stesso modo, una persona che conserva la sua personale peculiarità e non nasconde la sua identità, quando si integra cordialmente in una comunità, non si annulla ma riceve sempre nuovi stimoli per il proprio sviluppo. Non è né la sfera globale che annulla, né la parzialità isolata che rende sterili.
Il modello non è la sfera, che non è superiore alle parti, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità. Sia l’azione pastorale sia l’azione politica cercano di raccogliere in tale poliedro il meglio di ciascuno. Lì sono inseriti i poveri, con la loro cultura, i loro progetti e le loro proprie potenzialità. Persino le persone che possono essere criticate per i loro errori, hanno qualcosa da apportare che non deve andare perduto. È l’unione dei popoli, che, nell’ordine universale, conservano la loro peculiarità; è la totalità delle persone in una società che cerca un bene comune che veramente incorpora tutti».

3. Alcune categorie di speranza

Un ultimo punto che vorrei trattare con voi nasce da una mia curiosità, facilitata dal computer: sono andato a vedere tutte le volte in cui papa Francesco cita nel suo scritto la parola “speranza”. Sono 26 ricorrenze.
Mi ha colpito però soprattutto un passaggio dove, a conclusione del capitolo sulla crisi, individua due categorie di persone che sono la “speranza”. La prima è ovvia e sono i giovani, ma la seconda è meno scontata. Ascoltiamo quanto scrive papa Francesco (al n. 108):
«Come ho già detto, non ho voluto offrire un’analisi completa, ma invito le comunità a completare ed arricchire queste prospettive a partire dalla consapevolezza delle sfide che le riguardano direttamente o da vicino. Spero che quando lo faranno tengano conto che, ogni volta che cerchiamo di leggere nella realtà attuale i segni dei tempi, è opportuno ascoltare i giovani e gli anziani. Entrambi sono la speranza dei popoli. Gli anziani apportano la memoria e la saggezza dell’esperienza, che invita a non ripetere stupidamente gli stessi errori del passato. I giovani ci chiamano a risvegliare e accrescere la speranza, perché portano in sé le nuove tendenze dell’umanità e ci aprono al futuro, in modo che non rimaniamo ancorati alla nostalgia di strutture e abitudini che non sono più portatrici di vita nel mondo attuale».
Interessante: anziani e giovani “sono la speranza dei popoli”. Dovrebbe essere così anche da noi, dove invece le due categorie appaiono spesso contrapposte: gli anziani tutto sommato garantiti e ancora o quasi ben saldamente al potere; i giovani che – salvo vadano all’estero – devono aspettare di diventare anziani per poter trovare un lavoro fisso, per assumere responsabilità, per attuare le loro idee e tentano di “rottamare” gli anziani. Invece, afferma il papa, solo insieme possono essere speranza per le nostre comunità.

Conclusione

Vorrei ora concludere, sperando che quanto vi ho detto possa servire per il nostro dialogo e costituisca quasi uno “stuzzichino”, un “aperitivo” per invitarvi a nutrirvi abbondantemente della lettura del documento del papa. Una lettura che si può fare anche da un punto di vista laico; ovviamente chi è credente può trovare nelle parole di papa Francesco ulteriori motivazioni per il suo impegno nella società. Concludo con una citazione del papa che riguarda il vescovo (n. 31): è una forzatura reinterpretarla riferita all’amministratore? Giudicate voi.
«Il Vescovo deve sempre favorire la comunione missionaria nella sua Chiesa diocesana perseguendo l’ideale delle prime comunità cristiane, nelle quali i credenti avevano un cuore solo e un’anima sola (cfr At 4,32). Perciò, a volte si porrà davanti per indicare la strada e sostenere la speranza del popolo, altre volte starà semplicemente in mezzo a tutti con la sua vicinanza semplice e misericordiosa, e in alcune circostanze dovrà camminare dietro al popolo, per aiutare coloro che sono rimasti indietro e – soprattutto – perché il gregge stesso possiede un suo olfatto per individuare nuove strade».
Vi auguro di stare in mezzo alla gente, condividendone i problemi ma anche i sogni e di essere comunque anche in questo momento di crisi “prigionieri della speranza”. Grazie.

† Vescovo Carlo